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I mestieri del cinema. Doppiaggio e sonorizzazione

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Al termine del montaggio la copia di lavoro del film può contare su una colonna sonora molto approssimativa che viene chiamata ‘colonna guida’, proprio per la sua funzione di traccia su cui attuare la vera ‘sonorizzazione’, una delle fasi della postproduzione cinematografica tra le meno conosciute a chi non fa parte del mestiere.

Durante le riprese il fonico di set registra con il Nagra, attraverso differenti tipi di microfoni – panoramici, direzionali, ad asta (la famosa Giraffa) o cimici nascoste – i dialoghi degli attori insieme a tutti i rumori dell’azione. Ma i suoni, in particolare nel caso di Fellini, sono mischiati alla voce del regista che non cessa di impartire istruzioni agli interpreti, sui movimenti, le espressioni del viso, le intonazioni del parlato. E non solo. Se si gira in esterni, e non dentro un teatro di posa insonorizzato, si aggiungono tutti i numerosissimi rumori dell’ambiente, difficilmente utilizzabili per un ascolto ‘pulito’.

Pertanto mentre in saletta di doppiaggio anecoica si reincidono le battute degli interpreti, nei laboratori appositi i rumoristi si ingegnano a ricomporre, scena per scena, la tessitura sonora del racconto.

Nel doppiaggio si segue il ‘copione dialoghi’. Il film, smembrato in tanti tronconi di pellicola chiusi ‘ad anello’, viene proiettato su uno schermo frontale alla postazione microfonica. L’attore guardando la scena e ascoltando in cuffia la colonna originale, ripete fedelmente ogni battuta, che un fonico di sala registra nella sua cabina protetta da un vetro isolato acusticamente.

I dialoghi vengono replicati sia dagli stessi interpreti del film, sia più spesso dai doppiatori che prestano loro la voce; e recitando le battute essi debbono porre estrema attenzione alle labiali, cioè al movimento delle labbra, che deve essere in perfetto sincrono con le parole pronunciate in diretta. Anche un minimo ‘fuori sincrono’ produce nello spettatore un effetto straniante e negativo, molto fastidioso.

Fellini, che non aveva certo il culto dell’associazione voce-volto, doppiava tutte le voci del film. Essendo il suo cinema basilarmente pittorico, il regista sceglieva gli attori, ma anche i figuranti e i secondi ruoli, in base alle facce; erano quei sembianti, quei lineamenti che gli interessavano, e a ogni faccia assegnava la voce che riteneva più idonea, più rispondente al personaggio. In pratica ricostruiva al doppiaggio un secondo film sonoro, cambiando spesso anche i dialoghi, e imprimendo alla recitazione degli attori timbri toni e cadenze che egli stesso suggeriva non solo a parole, ma imitando ogni battuta di parlato.

Le sedute di doppiaggio erano lunghe e impegnative, ma anche divertenti, proprio per la pirotecnica fantasia delle trovate, dei giochi, degli scherzi che intrecciava con i doppiatori. Ad alcuni particolarmente dotati, come Oreste Lionello, chiedeva di interpretare anche dieci voci differenti, uomini, donne, bambini, spesso utilizzando dialetti e intonazioni diversi, un gioco mirabolante di alto illusionismo. Anche Alberto Lionello, assai duttile, era tra i doppiatori più amati dal Maestro. Corrado Gaipa non mancava mai. Per non parlare del grandissimo Alighiero Noschese, il principe degli imitatori, che sotto la guida di Federico avrebbe potuto doppiare un ‘intero’ film da solo. Fellini aveva un orecchio speciale per le voci, pensate al capolavoro di Arnoldo Foà che ne La strada doppia Zampanò, recitato nel film da Anthony Queen. O in Amarcord, il più romagnolo dei suoi capolavori, dove per i ruoli principali sceglie tutti attori napoletani: Pupella Maggio, Armando Brancia, Giuseppe Ianigro (madre, padre e nonno di Titta), che nel film hanno le voci di Ave Ninchi, Corrado Gaipa, Fausto Tommei; e Adriana Asti presta la sua voce melodiosa alla Gradisca, l’attrice francese Magali Noël. Gli altri? Enzo Robutti era Teo lo zio Matto, Paolo Carlini Lallo il Pataca, Piero Tiberi Titta, Solvejg D’Assunta, un’altra assoluta fuori classe al femminile, era la Tabaccaia.

E Casanova? Incerto tra Enrico Maria Salerno e Gigi Proietti, alla fine Fellini aveva preferito l’attore romano, un insuperabile fantasista, che riuscì a conferire al personaggio quel carattere magniloquente e vanesio, vuoto e compiaciuto, che il regista gli aveva ormai assegnato dentro di sé. Proietti, che stava vivendo un momento esaltante, particolare, della propria esistenza, sotto la guida di Federico aveva costruito un capolavoro vocale ed espressivo. Cancellata ogni minima traccia di romanesco, e utilizzando un’enfasi alla Vittorio Gassman ma depurata di ogni teatralità, Proietti venava il suo eloquio persino con una impercettibile sfumatura di veneziano, usando un suono grave di petto, ma che sapeva assottigliare in acuti di testa, arrischiandosi in ogni piega del sentimento: roboante e tenero, smargiasso e vulnerabile, invariabilmente intriso di un erotismo molecolare, ma con dentro pur sempre qualcosa di infantile, e l’incrinatura da una dignità ferita. Un prodigio di equilibrismo vocale. Ancora oggi, riascoltandolo, si resta ammaliati da come l’attore sia riuscito a entrare fisiologicamente dentro un personaggio ‘mentale’ concepito da Fellini al di fuori di ogni realismo, e raffigurarlo fonicamente proprio come l’artista aveva voluto che risultasse: un burattino umano, un altro dei suoi stupefacenti pinocchi.

Poi ci sono i rumoristi, i quali debbono registrare a parte, con chiarezza, l’intero ordito dei rumori, che vanno dal semplice passo degli attori, cioè il rumore delle scarpe su selciati, acciottolati, sanpietrini, asfalti, brecciolino, viale sassoso, sabbia, roccia; oppure negli interni parquet, moquette, lastre di marmo, maioliche. Ma anche qualsiasi rumore che sia stato prodotto dall’azione scenica; impossibile elencarli tutti, possono andare dal crepitio di un camino acceso, allo squillo del telefono, a una porta che si chiude, o si apre, al cigolio di un letto, a una bottiglia stappata, l’acciottolio delle stoviglie, il tintinnio di ghiaccio nel bicchiere, il temporale fuori della finestra, il sibilo del vento, la pioggia, un’auto che passa sull’asfalto bagnato, lo stormire degli alberi, un miagolio, l’abbaiare di un cane, e così via. Possiamo andare avanti a piacere. Fino a quando non si pone attenzione, nessuno nota mai la quantità di rumori diversi che accompagnano la nostra esistenza e che il nostro cervello seleziona in automatico, al punto che alcuni li sentiamo senza sentirli, altri li elidiamo, altri ancora li enfatizziamo, a seconda dell’interesse che ricoprono per noi e dal grado di emotività che veicolano. Pensate al fruscio di un abito che viene sfilato, l’acqua che sgorga nella vasca da bagno, i tacchi a spillo, una spazzola che liscia una lunga chioma, il nodo serico della cravatta, una mantella di visone poggiata sulle spalle. E’ un lavoro minuzioso e complesso, da certosini, perché la maggior parte dei rumori, in laboratorio, vengono ricreati con strumenti inimmaginabili; il rumore degli zoccoli dei cavalli con i mezzi gusci di noci di cocco battuti su un piano di legno; per i passi che affondano nella neve si utilizza la fecola di patate; spiegazzando un foglio di plastica si riproduce il crepitio del fuoco; il crack di un osso spezzato è quello ottenuto tranciando un gambo di sedano; il tonfo di un cazzotto al petto si abbatte in laboratorio su un quarto di manzo o su una poltrona; per una testa fracassata funziona bene il cavolo cappuccio. Renato Marinelli, tra i preferiti di Fellini, teneva da parte, sempre a portata di mano, un nastrino magnetico con sopra inciso uno speciale soffio di vento. Quando il maestro lo richiedeva per riempire un vuoto emotivo, eccolo, era già pronto il misterioso, leggendario: “Vento di Fellini”. Il controllo del regista sui rumori era instancabile.

I rumoristi oltre a possedere un archivio sterminato di rumori già registrati, come il tonfo della portiera dell’auto, i vari clacson, il diverso suono delle campane, la sirena delle ambulanze, o il gracidio delle rane, il frinire dei grilli, il garrire delle rondini; tanti altri sono costretti a ricrearli sul momento, un esercizio che richiede molto orecchio, inventiva, precisione, attenzione assoluta.

Nella colonna sonora originale naturalmente esistono i rumori raccolti dal fonico di presa diretta, ma spesso non sono puliti, oppure sono eccessivamente presenti e invadenti. Nei film a basso costo o nelle fiction televisive girate in fretta e a risparmio, spesso viene usata anche nella copia defintiva la colonna di presa diretta, e il fastidio, almeno per me, risulta intollerabile, perché c’è una amplificazione innaturale di suoni e rumori ai quali nella vita di ogni giorno non prestiamo la minima attenzione. E spesso, essendo connessi al dialogo, non sono attenuabili in fase di missaggio. Il rumore per esempio può legittimamente scomparire in presenza dell’accompagnamento musicale che, nello stato d’animo dello spettatore, è bene che prevalga su qualsiasi altro apporto sonoro.

E così introduciamo l’ultima fase della sonorizzazione che è rappresentata appunto dal mixage, cioè la fusione delle tre colonne audio – doppiaggio, rumori, musica – in un’unica e definitiva colonna sonora.

Il missaggio è lo stadio conclusivo del film, l’ultimo atto che serve ad arrivare alla copia definitiva di stampa. Questo controllo minuzioso avviene in una sala apposita insonorizzata, munita dello schermo su cui scorrono le immagini, e di una consolle acustica a uscita multipla, con la quale è possibile isolare anche un solo suono, o rumore. Il tecnico di mixage, in presenza del regista e sovente anche del montatore, del rumorista e del musicista, ripercorre interamente il film, dall’inizio alla fine, mescolando tra loro tutti gli apporti sonori, alzando o abbassando il volume dell’una o dell’altra uscita a seconda dell’esigenza della scena, ma soprattutto dell’autore del film. In questo modo, provando, riprovando, tornando indietro ogni volta, confrontando, sperimentando, il fonico del missaggio armonizza tra loro tutte le voci, i rumori e le note musicali presenti nella narrazione. Fino ad ottenere un risultato ottimale, omogeneo e funzionale al racconto. Anche in questo caso sono richiesti giorni interi di lavoro.

La composizione musicale, in questo delicato equilibrio, occupa naturalmente un ruolo importantissimo. Se finora non ne abbiamo parlato, è proprio perché la musica merita un capitolo a parte.

La musica di accompagnamento nasce pressoché insieme all’invenzione del cinema. All’inizio del Novecento, quando il pubblico affollava le piccole sale dei caffè, ammirato e stupefatto di veder muovere i personaggi sullo schermo, la proiezione era muta. Le didascalie scritte in sovrimpressione o i sottotitoli con i dialoghi (subtitles) facilitavano la comprensione della storia, ma un ruolo trascinante svolgeva la musica dal vivo. Durante la visione in sala, veniva collocato sotto lo schermo un pianista che accompagnava con i suoi virtuosismi alla testiera tutte le azioni del film, cambiando tempo, ritmo e genere a seconda del movimento o dei sentimenti suggeriti dalla trama, variando a vista da un inseguimento a un abbraccio passionale, da un addio struggente a una scena di violenza.

In tenace coerenza con la sua nascita, la musica da film continua ad avere ancora oggi una funzione spesso di servizio, a meno che non si tratti di un musical o di una commedia musicale. In quasi tutti gli altri casi serve a sottolineare il pathos di ciò che accade sullo schermo. Spesso il compositore ricorre a soluzioni strumentali per le sottolineature, i trasalimenti, le sorprese, un brivido di orrore, una suspense. Oppure si abbandona a svolazzi melodici per evocare l’impeto dei sentimenti in cui sono immersi i personaggi: il primo incontro d’amore, l’ansia dell’attesa, la passeggiata romantica, il bacio appassionato, la gelosia, l’inganno.

Sequenze e inquadrature scivolano su un contrappunto musicale gergalmente chiamato “lettino”, che sostiene e definisce lo snodo narrativo tramite la coloritura, l’enfasi, l’abilità dell’orchestrazione. Anche nei casi più raffinati, la musica risponde ad esigenze pratiche, elementari.

Nei film di Fellini circola invece un’altra aria, grazie alla miracolosa associazione artistica con Nino Rota. Fin dai primissimi titoli – Lo Sceicco Bianco, i Vitelloni – i temi musicali dei suoi film ci restituiscono l’aspetto più segreto e non visibile dell’opera, il sembiante nascosto, la sua ombra, la sua anima. Rota non compone musiche da film, bensì traduce il film in musica; analogamente a quanto accadeva nel melodramma teatrale, in cui il compositore metteva in musica il “libretto” che gli veniva affidato. L’accompagnamento musicale di Nino Rota non ricorre a effetti di maniera perché la sua funzione è del tutto diversa, più simile alle overture delle opere liriche che, sin dal primo attacco, trasportano lo spettatore dentro una anticipazione emotiva ed espressiva dello spettacolo a cui sta per assistere.

Ma questa è veramente un’altra storia, che affronteremo presto in tutta la sua affascinante ricchezza.


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