Di Ennio Morricone mi ha sempre colpito la grandezza, il genio che lo ha caratterizzato in ogni istante della sua vita, in ogni composizione, nel suo sguardo sempre profondo e illuminante sulle questioni del nostro tempo. Impossibile descrivere a parole la magia delle sue colonne sonore: basti dire che la maggior parte dei film che hanno avuto la sua musica come sottofondo, senza quelle note, non sarebbero stati gli stessi.
Morricone era una sorta di protagonista aggiunto dei film cui ha prestato la sua arte, un protagonista invisibile, fatto di note e di bellezza, immateriale eppure sempre presente, immortale, indimenticabile come l’opera di coloro che sono destinati a restare.
Non amava la retorica, le frasi fatte, i luoghi comuni, gli eccessi, gli attestati di stima che sconfinano nella piaggeria. Era un uomo schivo, viveva per la sua musica e con la sua musica ci ha tenuto compagnia per decenni. Ci ha detto addio all’età di novantun anni, senza annunci, senza clamore, com’era nel suo stile, andandosene lasciando dietro di sé un’eredità straordinaria e un senso di vuoto che avvertiamo oggi più che mai.
Morricone ha dato un’anima ai western di Sergio Leone e a capolavori come “C’era una volta in America”, ha scandito la fiction sui martiri di Cefalonia, interpretata da Luca Zingaretti e Luisa Ranieri, e ha saputo spesso farci commuovere.
Credeva nel prossimo, immaginava il futuro, creava, componeva, sognava, non si fermava neanche per un istante, non si arrendeva alla barbarie e non si stancava mai di regalare meraviglia al mondo. Ha composto fino alla fine, ha suonato, ha immaginato un domani anche nei giorni tragici del Coronavirus ed è stato fermato solo dalla rottura del femore e dal raggiungimento del traguardo.
Ora è lassù e continuerà a suonare. In lui l’umano e il divino si toccano.
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