Il prossimo 27 luglio potrebbe arrivare nell’aula della camera dei deputati la proposta di legge sul conflitto di interessi. Finalmente. Il testo è frutto del lavoro di sintesi ed ampliamento degli articolati depositati nella legislatura in corso svolto dal presidente della commissioni affari costituzionali Giuseppe Brescia (Mov5Stelle).
Si tratta di un corpo piuttosto dettagliato, forse troppo. In una materia in cui sarebbe, invece, assai attuale la massima di Lenin <meglio meno, ma meglio>. Maggiori sono le casistiche evocate in dettaglio, maggiore è la possibilità di qualche astuto aggiramento. Del resto, siamo in un paese moralmente debole.
Ad esempio, sono ineleggibili in parlamento anche i vice capi di gabinetto e i vicedirettori delle testate giornalistiche nazionali. Già, e i capi di gabinetto vicari o i condirettori? I dettagli svelano le assenze ed è preferibile su materie dove il diavolo (con stuolo di avvocati al seguito) è sempre in agguato disegnare traiettorie e categorie generali, badando alle questioni essenziali. E’ sempre utile ricordare che il progetto approvato nel 1998 alla camera dall’allora centrosinistra era sì dettagliato, ma pieno di buchi (metteva al bando Fedele Confalonieri – il titolare formale delle concessioni televisive- e non Silvio Berlusconi). Così, quando al senato Cesare Salvi, Massimo Villone, Stefano Passigli e Antonello Falomi provarono a migliorarlo, era troppo tardi. Per non dire della legge attualmente in vigore – la n.215 del luglio 2004, siglata dall’allora ministro Frattini- che si è rivelata talmente innocua da aver fatto perdere persino tracce e memoria. Comunque, persino una delle poche misure potenzialmente incisive, vale a dire la norma sul <sostegno privilegiato> (vedi quello offerto dalle reti Mediaset a Berlusconi) non ha trovato seria attuazione da parte dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni cui spettava il compito di darvi seguito.
La sostanza del progetto è nell’insieme positiva ed efficace. L’ambito di applicazione spazia come un grandangolo dai titolari di cariche governative nazionali e locali, al parlamento, ai consigli regionali, alle autorità indipendenti.
Nel corso dell’attività istituzionale ogni attività pubblica o privata deve cessare. Sulla sfera pubblica è, ovviamente, più semplice separare le funzioni, grazie alle misure già in gran parte vigenti. Il punto di aspra contesa (fino ad inficiare i pur esigui tentativi regolatori del passato) riguarda il <terribile diritto di proprietà>. Qui è netta l’indicazione (art.6) sull’incompatibilità derivante da attività patrimoniali. Insomma, o la borsa o la carica. Giusto. Il livello di allarme è definito nel 2% del capitale sociale dell’impresa e la sfera di irradiazione del divieto corre dai regimi di autorizzazione e concessione dello stato, ai diritti esclusivi operanti in situazioni di monopolio, ai settori esposti e delicati (difesa, credito, energia, comunicazioni, editoria, raccolta pubblicitaria, opere pubbliche). Sono previsti rigidi obblighi di dichiarazione sotto la vigilanza dell’Autorità antitrust, il dominus del campo. E chissà se è il luogo opportuno, essendo parecchio oberato. Servirebbe magari un’Autorità ad hoc e specificamente qualificata, a partire dal personale.
Che fine fanno le proprietà? Vengono conferite ad un’unica società fiduciaria, che gli anglosassoni chiamano blind trust. Deo gratias. Qualcosa di sinistra: la proprietà non è intangibile e deve rispondere al complesso del sistema democratico.
Certamente, è lecito obiettare che simile fisionomia ben si presta ad un capitalismo azionario evoluto e meno ad un’imprenditoria familiare come quella italiana. Nel 1994 si levò un grido di dolore capeggiato da Paolo Sylos Labini contro la nota discesa in campo e fu immaginato di aggiungere il possesso dei media alle cause di ineleggibilità previste dalla legge del 1957. Il parroco no e il Cavaliere sì?
Tuttavia, ciò che arriverà – speriamo- al dibattito nei prossimi giorni nell’aula della camera è una boccata di ossigeno.
E’ lecito citare Crozza-Zaia, scrivendo una cosa che <farà inc…re qualcuno>? Vale a dire: si approvi anche così com’è, ma si approvi.