di Chiara Ludovisi
ROMA – Loredana e Krystyna sono due mamme caregiver, provate da un lockdown che ha reso la loro vita ancora più complicata. Ma se il lockdown è finito, almeno per il momento, il ritorno alla normalità sembra ancora molto lontano. Loredana vorrebbe vedere di più suo figlio, trascorrere con lui qualche giorno, come tutte le estati. Ma non le è consentito. Krystyna invece sua figlia vorrebbe vederla un po’ meno, perché da mesi orma sua figlia non vede che lei: il centro diurno è stato chiuso durante la cosiddetta “fase 1”, solo da poco ha riaperto ma adesso, sorprendentemente, si accinge a chiudere di nuovo, per le ferie estive. Loredana e Krystyna sono due storie simili ma diverse, due facce della stessa medaglia, due declinazioni della stessa fatica e della stessa solitudine: quella dei caregiver che, nella complicata fase storica che si è aperta a marzo e che ancora deve chiudersi, hanno sentito ancor più forte il peso della disabilità dei loro figli e dell’assistenza di cui questi hanno bisogno.
La chiusura estiva del centro diurno, “una mazzata sulla testa”
Krystyna si presenta come “madre, unico genitore e unico familiare di Karolina, una donna di quasi 30 anni disabile”. E’ caregiver a tempo pieno, perché “la mia vita è stata assolutamente annullata, vivo in funzione dei suoi bisogni, delle sue esigenze”. Prima che la pandemia arrivasse a sconvolgere ulteriormente la sua vita, però, la figlia frequentava un centro diurno. “In questo momento però, siamo (entrambe, perché anche mia figlia soffre i cambiamenti e lo stress ad essi legato) state messe a una prova di forza non indifferente. Visto però che non siamo stupide abbiamo accettato per il bene comune e anche nostro. Con la salute non si scherza”. E’ quanto scrive Krystyna in una lettera aperta, che ieri ha inviato al presidente della regione Veneto Zaia e all’assessore alla Sanità Lanzarin. E’ a loro che racconta “la mazzata che ci è arrivata oggi sulla testa”, proprio nel momento in cui “stavamo con grande fatica ritornando alla normalità. Il centro diurno, anche se con molte regole limitanti la socializzazione, stava aprendo. La fisioterapia, dopo mesi di stop, stava cominciando a dare i primi timidi risultati. Io stavo cominciando a prendere qualche boccata d’aria. Troppo bello per essere vero”. E infatti non è vero, è solo una breve illusione: “Ad agosto, come se non fosse successo niente, si chiude di nuovo tutto. Spiegazione: era già previsto, come ogni anno”. Il colpo per Krystyna è stato molto duro. “Ma mi volete morta? – domanda – Quanto pensate che io possa gestire ancora questa situazione? Avete una vaga idea di cosa voglia dire lavorare (si, perché assistere un famigliare non autosufficiente è un lavoro, anche se non riconosciuto da nessuno) 24 ore su 24, nel mio caso da quasi 30 anni? Dovrei chiamare qualcuno che si occupi di mia figlia, a mio rischio e pericolo, perché non posso pretendere che la persona mi porti un certificato che non è affetta da Covid? Cosa devo fare?”: una domanda che resta, almeno per il momento, senza risposta. E intanto “mia figlia passa le giornate accanto a me, attaccata come fosse la mia ombra. Fa qualche i puzzle, ritaglia i foglietti delle offerte dei supermercati, attacca le figurine. Lei ha bisogno di avere i suoi amici del centro accanto, i suoi operatori. Stanno peggiorando anche le sue capacità di deambulazione: andare in giro con lei è sempre un problema, ma stare in casa non le fa certo bene”.
“E’ ora di riaprire le strutture al mondo esterno”
Loredana ha quattro figli, di cui due con disabilità: uno di loro, Gabriele, compirà 30 anni a novembre e ha una patologia psichiatrica seria, per la quale “non è mai stato preso in carico in modo adeguato dai servizi”, riferisce la mamma. “A Roma, dove viviamo, non esiste una struttura in grado di occuparsi di lui e assicurargli un percorso terapeutico adatto. Per questo, da oltre cinque anni, vive in una struttura molto valida, in Emilia Romagna. Qui ha fatto grandi passi avanti, sta molto meglio, ha ripreso in mano la sua vita”. Questo, prima del Covid, “Ora, con l’emergenza sanitaria, siamo caduti nel baratro: da marzo a giugno non abbiamo potuto mai vederlo: solo qualche telefonata e poi, da un certo momento, una videochiamata a settimana. A fine giugno, siamo finalmente riusciti ad andare, ma le modalità e le regole sono cambiate: prima potevamo stare insieme quanto volevamo e potevamo uscire liberamente; adesso invece dobbiamo rimanere lì e solo per 45 minuti al massimo, per tre giorni consecutivi. Abbiamo fatto così a giugno, lo abbiamo rifatto dal 9 all’11 luglio e lo rifaremo ad agosto: ma oltre alla fatica di 400 chilometri di strada e un albergo da pagare per vedere Gabriele così poco, c’è la sua sofferenza e il suo disagio, che inizia a manifestare chiaramente. Avremmo bisogno, noi e lui, di trascorrere un po’ di tempo insieme, tra di noi, come sempre abbiamo fatto nel periodo estivo e durante le feste: trascorreva una decina di giorni insieme a noi, fuori dalla struttura, e questo era vitale per noi e per lui. Quest’estate non sarà possibile, dovremo adeguarci a queste regole, dettate dalla pandemia. Siamo sempre grati alla struttura e agli operatori, eccellenti per le loro competenze e la loro attenzione. E comprendiamo anche le regole imposte dalla regione, un un’ottica di tutela della salute pubblica. Ma viviamo questa situazione con grande pesantezza e sofferenza, soprattutto di fronte allo stress emotivo che Gabriele mostra di soffrire”.
I ragazzi ospiti della struttura sono stati informati della situazione: “Gli operatori li hanno aiutati a seguire le notizie, i bollettini, le conferenze, in modo che non vivessero questa reclusione come se fosse soltanto loro. In questo modo Gabriele ha sopportato meglio la situazione, ma ora è stanco, ha bisogno di uscire, di tornare nel mondo, che era abituato a frequentare grazie alle numerose attività che la struttura svolge anche all’esterno. Da tempo invece sono isolati, svolgono solo attività interne, per fortuna hanno il giardino ma sono ragazzi adulti, tra i 25 e i 35 anni, hanno bisogno di allargare gli orizzonti. Io penso che si debba aprire, porre fine a questa separazione delle strutture dal mondo esterno, certo con tutte le precauzioni e le accortezze che la situazione richiede. Noi genitori saremmo disposti a stare bardati, a sottoporci a tutti gli esami prima di riportare Gabriele in struttura: faremmo tutto, pur di passare qualche giorno con cui e tornare a vederlo sereno. Se la situazione non cambierà, non vorrei dover decidere di farlo dimettere, prima della conclusione di un percorso riabilitativo che stava dando i suoi frutti”.