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#19luglio1992 Il fresco profumo della libertà. Intervista a Salvatore Borsellino

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A ventott’anni dalla strage di via D’Amelio, in cui rimasero uccisi Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, cinquasette giorni dopo la mattanza che uccise, a Capaci, Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, riannodiamo in quest’intervista i fili della memoria. Dalla testimonianza di Salvatore Borsellino, emerge tutta l’umanità di un fratello innamorato della vita, della cultura, della legalità, profondamente rigoroso fin da ragazzo ma al tempo stesso dotato di una squisita umanità che spesso ha fatto la differenza.

Siamo alla vigilia dell’anniversario di quella maledetta domenica di luglio. Innanzitutto, come sta?

Sono a Palermo, e quando sono a Palermo ritrovo le mie radici, dato che vivo a Milano da cinquantuno anni. Quando torno a Palermo, tuttavia, mi sento nuovamente a casa.

Cominciamo questo racconto di Borsellino con il Paolo giovane, con i suoi aneddoti da ragazzo, ad esempio quando vi divertivate a sfidarvi in singolari gare a colpi di terzine dantesche.

Noi, grazie a nostra madre, che possedeva una libreria immensa, ci siamo appassionati alla lettura fin da ragazzi. Lei ci passava i libri da leggere secondo un certo ordine e noi abbiamo cominciato a conoscere il mondo più attraverso i libri che grazie al contatto con il mondo reale. Amavamo, ad esempio, Leonardo Sciascia, tanto che Paolo ci rimase malissimo quando Sciascia, sulle pagine del Corriere della Sera, lo accusò sostanzialmente di carrierismo. Paolo non si diede pace fino a quando non si chiarirono, e negli ultimi anni della sua vita esibiva con orgoglio una foto di loro due, insieme, che ridevano dopo essersi riappacificati.

Tornando a Dante, noi ci sfidavamo a colpi di terzine e spesso arrivavamo tranquillamente alla fine del canto.

Una volta, tuttavia, Paolo mi sfidò sul “Contrasto” di Cielo d’Alcamo ma io, avendo scoperto che lui stava leggendo quel libro, avevo capito che voleva farmi questo scherzo e così me lo procurai anch’io e ci rimase male.

A ventisette anni me ne sono andato via da Palermo e anche le nostre sfide si sono interrotte.

Mi ha colpito molto una frase di Paolo: “Palermo non mi piaceva, per questo imparai ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace, per poterlo cambiare”. Quando ha deciso di diventare magistrato?

Mio fratello lo spiega in una lettera dedicata ai ragazzi, quando gli chiedono la stessa cosa che mi hai chiesto tu. Paolo non pensava di diventare magistrato, ma gli piacevano gli studi giuridici e così si trovò di fronte tre opzioni: la carriera universitaria, ma servivano dei santi in Paradiso che noi non avevamo, fare l’avvocato, ma non gli andava di inseguire i compensi dei clienti, dato che non venivamo da una famiglia abbiente, e poi la magistratura. Ripeteva di essere stato fortunato. Paolo si alzava alle cinque e cominciava a studiare, sentivo i suoi colpi di tosse dalla stanza accanto. Paolo amava sempre scherzare e ripeteva spesso: “Mi suso alle cinque di mattina per futtere ‘u munno con du’ ore d’anticipo” (Mi alzo alle cinque di mattina per fregare il mondo con due ore d’anticipo). Altro che fortuna! Divenne il più giovane magistrato d’Italia e aveva uno stuolo di colleghi che lo circondava come si va dal professore, tanta era la sua passione e la sua competenza.

Quando morì nostro padre, a soli cinquantadue anni, Paolo iniziò a mantenersi scrivendo le tesi di diritto per gli altri, battendole personalmente a macchina anziché portarle in copisteria per mettersi da parte qualche altro soldo. Si trovò a vent’anni a fare il capofamiglia ma purtroppo qui si interrompono i miei ricordi giovanili perché, dopo la laurea e il servizio militare, decisi di partire. Partii perché, come ingegnere, a Palermo non avrei potuto trovare lavoro. Mi dispiace di essermi perso gli anni più importanti di Paolo.

C’è un altro aspetto, tuttavia, che vorrei che emergesse: fino al 1980 Paolo non si occupa di giustizia penale ma di giustizia civile, e solo quando Chinnici lo chiama, insieme a Falcone, a far parte di quell’embrione di pool che poi si sviluppò dopo la morte di Chinnici stesso, in occasione dell’uccisione del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile, solo allora comincia a occuparsi di mafia. In quel momento, capì che quello era l’elemento più importante e ne fa la sua ragione di vita. La frase su Palermo che prima hai citato è una delle più belle di Paolo, in quanto si parla di amore e per lui l’amore era fondamentale.

Un’altra frase che mi ha sempre colpito, non so se l’abbia pronunciata Paolo o Giovanni ma non ha importanza, è quella che recita: “Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una sola volta”. In quella frase si parla del coraggio e non è un incitamento all’incoscienza ma ad avere la forza d’animo di sfidare la paura. Tuttavia, il coraggio non basta, specie quando ti hanno ucciso un fratello come Giovanni Falcone. Ci vuole qualcosa di più e di diverso: l’amore, per l’appunto, la sua caratteristica principale. Paolo sapeva che uccidere Falcone senza uccidere anche lui non avrebbe avuto senso perché, ovviamente, si sarebbe battuto fino alla fine per far venire alla luce la verità: da qui l’importanza dell’amore.

Come ha vissuto i cinquantasette giorni che separano Capaci da via D’Amelio, quando suo fratello sapeva di essere, di fatto, un condannato a morte? Che ricordi ha di quel periodo?

Io li ho vissuti da lontano, a differenza di nostra madre e del resto della nostra famiglia. Noi sapevamo che sarebbe successo, che doveva succedere ma il coraggio di Paolo si trasferiva anche a noi.

Ho un ricordo tremendo. Tre giorni prima che venisse ucciso gli telefonai. Noi ci sentivamo spesso al telefono e ogni volta mi diceva: “Toto, ma perché non torni a Palermo?”. E io gli davo risposte cattive. E lui ribatteva che si poteva tornare, mi incitava a farlo, citandomi gli esempi di ingegneri che si occupavano di perizie per il tribunale e riuscivano, pertanto, a vivere serenamente anche a Palermo.

Quell’ultima volta fui io a dirgli di andarsene. Gli dissi: “Se resti lì ti amazzano”. E lui rispose con parole che continuano a pesarmi: “Perché tu te ne sei scappato, adesso chiedi di scappare anche a me?”. Paolo non sarebbe mai scappato, anche se sapeva di essere un condannato a morte. Quelle parole mi pesano perché io da Palermo, in effetti, sono scappato: non ho avuto abbastanza amore. Io ho amato solo la mia famiglia, scegliendo di far vivere i miei figli in una città in cui non c’era la mafia. Il mio amore era molto più limitato ma non è servito a niente perché aveva ragione mio fratello: tutto ciò da cui ero scappato me lo ritrovo oggi a Milano in forme assai più pericolose, con la mafia trasformatasi in finanza e giunta a drogare quella che un tempo era un’economia pulita.

La gente, purtroppo, non si rende conto che mafia e ‘ndrangheta stanno penetrando dappertutto. La criminalità organizzata, specie in un periodo di crisi come questo, sta sporcando e sovvertendo l’economia un tempo pulita di molte regioni.

Per un uomo di legge come suo fratello, cosa significava avere la sensazione di essere tradito da uomini che avevano compiuto la sua stessa scelta e che, invece, stavano venendo a patti con il mostro che avrebbero dovuto combattere?

Questa per Paolo è stata la cosa più terribile. Paolo aveva un senso dello Stato fortissimo e questo, da ragazzi, era un motivo di contrasto fra di noi. Io, a differenza sua, ero di temperamento anarchico e libertario, lui era appassionato dei Savoia perché rappresentavano, a suo dire, l’unità d’Italia. Era arrivato al punto di tracciare su un foglio l’albero genealogico di tutta la famiglia Savoia. Io, al contrario, ero più borbonico che savoiardo.

Quando si è accorto che c’erano pezzi dello Stato che avevano deciso di trattare con la mafia, per lui è stato un trauma. Mio fratello è stato un soldato che è andato in guerra a combattere un nemico, e in guerra, anche se io sono un pacifista, si va per uccidere col rischio di essere uccisi.

Il punto è che il fuoco che l’ha ammazzato non è venuto dai nemici ma alle spalle, da coloro che avrebbero dovuto combattere insieme a lui. Paolo arrivò a vomitare quando capì che c’erano pezzi dello Stato e delle istituzioni che erano passati dall’altro lato, che stavano dalla parte del nemico. Mio fratello è stato ucciso dalla mafia ma non per volere della mafia. La sua vicenda personale ha subito un’accelerazione dopo che nel suo ultimo discorso pubblico, il 25 giugno alla Biblioteca comunale di Palermo, chiese di andare a testimoniare davanti ai magistrati di Caltanissetta dove non era ancora stato chiamato, benché fosse il migliore amico di Falcone nonché l’unica persona che aveva avuto modo di leggere i diari di Falcone che sono stati fatti sparire dalla memoria del suo computer.

Paolo, il martedì dopo la domenica in cui fu ucciso, sarebbe dovuto andare finalmente a testimoniare davanti ai magistrati di Caltanissetta, e venne ucciso perché avrebbe denunciato la trattativa e sarebbe andato a dire quello che sapeva sui veri motivi dell’assassinio di Falcone. E non bastava uccidere Paolo: doveva sparire anche la sua agenda rossa, altrimenti sarebbe potuta finire nelle mani di qualche magistrato onesto.

In via D’Amelio qualcuno stava aspettando l’esplosione per sottrarre la borsa di Paolo con dentro l’agenda e poi riportare la borsa nella macchina di Paolo, sperando che finisse bruciata e di quell’agenda se ne perdesse anche il ricordo. Non si è perso il ricordo, mi spiace per loro: quell’agenda è diventata il nostro simbolo, l’emblema della nostra richiesta di verità e giustizia. Siamo stati noi, però, a dover ricostruire i movimenti delle persone in via D’Amelio, procurandoci i video per accertare ciò che è successo realmente.

Rispetto le sentenze della magistratura che hanno assolto il capitano Arcangioli dall’accusa di essere stato lui a sottrarre l’agenda rossa di Paolo per portarla, sostiene qualcuno, all’allora tenente colonnello Borghini. La verità è che non si vuole far chiarezza sulla sparizione di quell’agenda, e dietro ci sono gli stessi motivi per cui si è dovuti arrivare al Borsellino-quater per giungere all’assoluzione di Scarantino dall’accusa di calunnie cui era stato costretto con delle vere e proprie torture, fisiche e psicologiche. La sua calunnia è stata prescritta perché era stata indotta da funzionari dello Stato con la violenza. Oggi sono indagati dei semplici poliziotti per quello che è stato uno dei più grandi depistaggi nella storia del nostro Paese. Le condanne a suo carico sono state annullate ma non ci basta il barlume di verità cui si è giunti: manca la catena di comando, mancano i mandanti, mancano coloro che hanno avallato quest’orrore. Non so se riuscirò a vedere la fine di questa vicenda: l’importante è che la vedano i giovani che incontro e che cercano, insieme a noi, verità e giustizia.

Paolo amava moltissimo i giovani e a loro dedica una delle sue riflessioni più significative: “Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di combattere di quanto io e questa generazione ne abbiamo avuta”. Questo è il testimone che Paolo ha lasciato ai ragazzi affinché siano loro a cambiare questo Paese. E nell’ultimo giorno della sua vita scrive una lettera rivolta proprio ai giovani, ben cosciente del fatto che a Palermo era arrivato l’esplosivo anche per lui, tanto che due giorni prima aveva chiesto a don Cesare Rattoballi, il suo padre spirituale, di andarlo a confessare in Procura perché sapeva che ormai il suo tempo era scaduto e “doveva essere pronto”, e in quella lettera si dice ottimista. Può sembrare un pazzo ma non lo era: era un uomo innamorato della legalità e del futuro.

Un altro grande magistrato, Antonino Caponnetto, in quei giorni disse che era tutto finito. Vedendo il movimento delle Agende rosse, pensando che oggi il presidente della Repubblica si chiama Mattarella, osservando la coscienza civile delle nuove generazioni in merito alle questioni mafiose, mi vien da dire che forse, per fortuna, Caponnetto per una volta si sbagliava. Questi giovani conoscono quello che suo fratello chiamava “il fresco profumo di libertà”.

Penso di sì. Quel profumo ha prevalso sul puzzo del compromesso e dell’indifferenza. D’altra parte, cosa vuoi che potesse dire Caponnetto quando vide i suoi figli morire uno dietro l’altro? Però poi Caponnetto si è pentito di quella frase e ha intrapreso lo stesso cammino di Paolo, lo stesso che, nel mio piccolo, ho intrapreso anch’io.

Il giorno dopo, nostra madre, pur avendo ancora nelle orecchie quella maledetta esplosione, chiamò i figli che le erano rimasti e ci disse: “Da adesso voi dovete andare dappertutto, dovunque vi chiamino, e parlare ai giovani del sogno di Paolo”. Mia madre, cinque anni dopo, lo ha raggiunto. Io non so se quello che faccio basti a far rivivere il sogno di Paolo, che era così grande da non aver bisogno di quello che faccio io per continuare a vivere, ma ho giurato a mia madre di farlo e lo farò fino all’ultimo giorno della mia vita.


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