19 luglio 1992 ore 16,58: Paolo Borsellino e 5 agenti della scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina vengono dilaniati da 100 chili di tritolo. Un’autobomba spazza via l’ultimo baluardo dell’antimafia. Poi “ Scarantino fu indotto a mentire con particolare pervicacia e continuità, con l’elaborazione di una trama complessa che riuscì a trarre in inganno i giudici dei primi due processi”.
Con i corpi dilaniati ancora per strada, tra il fumo nero del massacro e le lamiere contorte inizia “il mistero” di via D’Amelio. Menzogne, depistaggi, tanti buchi neri della strage nella più clamorosa falsificazione della storia della giustizia della Repubblica”. Ventinove anni dalla strage molte cose sono state accertate attraverso processi passati in giudicato. Molte altre invece sono rimaste a galleggiare fra verità nascoste, e depistaggi, in quello che fu un atto terroristico mafioso eversivo, che si inserì in una strategia più ampia, un disegno cospirativo volto a colpire l’Italia. In questa storia fatta di menzogne, depistaggi e misteri, anche i buoni si rivelano cattivi. E i cattivi non sono solo i mafiosi che mettono le bombe, ma anche gli investigatori che indagano per scoprire i bombaroli e tuttavia, invece di cercare la verità, si mettono a fabbricare prove false per arrestare le persone sbagliate. Questa è la storia del depistaggio di via D’Amelio.
Dopo 28 anni questi morti, questi “giusti”, sono stanchi. Ci hanno dato tutto quello che potevano dare. Eravamo noi che dovevamo raccogliere la loro eredità. Il loro testimone. Il loro esempio. Invece, non sappiamo fare altro che torturarne la memoria. E loro oggi sono stanchi. Sono stanchi di retorica. Stanchi di ipocrisia. Stanchi di veleni. Stanchi di omertà. Dei “giuda” in magistratura, dei traditori della toga di palamariana memoria – non dimentichiamolo mai – parlò Paolo Borsellino, a pochi giorni dalla strage di Capaci, riferendosi ai traditori di Falcone. E anche lui, 57 giorni dopo, conobbe i suoi giuda. Ancora oggi è dall’alto che viene sbarrata la strada all’accertamento dei fatti, allo smascheramento dei colpevoli, dei registi che tirarono fila, mossero pedine, per poi avvelenare i pozzi, inquinando l’anelito di verità che, indegnamente, dopo 28 anni viene ancora soffocato. Voi vogliamo la verità. Noi chiediamo la verità. La chiediamo con forza. Noi dobbiamo conoscere per poter giudicare. In questo senso, in Italia negli ultimi anni c’è stato un concentrato di distrazioni e omissioni. Bisogna dirlo con chiarezza. Senza abbandonarsi all’overdose di smemoratezza che caratterizza le liturgie ufficiali.
Borsellino sapeva di dover morire, di essere il prossimo, di essere “un cadavere che cammina”, di “non avere più tempo”, di “dover fare presto”, parole sue. Quel magistrato, cresciuto come Falcone fianco a fianco con i mafiosi, in un quartiere di Palermo, e cresciuto per combatterli, per annientare la logica del disfattismo, della rassegnazione, si sentiva ormai abbandonato, accerchiato, condannato. Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino sono all’insegna della raccolta febbrile di appunti, testimonianze, parole appuntate sull’agenda scomparsa. Sono anche un lungo commiato alla famiglia, agli affetti più cari. La fine di Borsellino è una morte annunciata, e ancora più tragica . Lo Stato non fece nulla per impedirla. Anzi una parte di esso furono colluse con la malavita per l’organizzazione della strage, gettando una luce ancora più sinistra sulla sua morte, già tinta dei colori della rassegnazione. In un clima politico e sociale come il nostro, in cui le stesse persone dell’antimafia e/o minacciate dalla mafia si fanno la guerra tra loro, la storia di Borsellino è più attuale che mai, e più triste. Perché ci dimostra che, in fondo, 28 anni dopo non è cambiato niente. La mafia ha solo cambiato volto, esteso il suo tessuto sociale fino all’insospettabile Nord Italia, e sfondato il muro di vetro delle istituzioni, andandosi a sedere sugli scranni più alti dello Stato. E financo applaude le parole di chi non ha i mezzi né l’interesse a combatterla.
In un clima come questo, torrido e invivibile più che mai per la legalità, come possiamo pensare di sconfiggere il sentimento di rassegnazione, di predestinazione alla morte, che ha afferrato e annientato il cuore di un magistrato come Paolo Borsellino? Continuando, con la stessa ostinazione che ha condotto Falcone, Borsellino e tutti i protagonisti della lotta all’illegalità, a perseverare per sconfiggere quel sentimento che porta alla morte, ben prima delle bombe, delle pistole, delle intimidazioni. La rassegnazione che ha toccato Borsellino non deve toccare chi è venuto dopo di lui, chi non era nemmeno nato al tempo in cui la mafia metteva le bombe, ma che è vivo e combatte ora che la mafia si siede a cena con le figure chiave del potere.
Lo stesso Paolo Borsellino, come Giovanni Falcone e come tutti gli altri martiri della legalità, non aveva perso irrimediabilmente la speranza. L’ha riposta nelle nuove generazioni, perché sconfiggano quell’incubo, quel sogno di morte, che è il predominio della mafia sugli aspetti più preziosi del nostro Stato, non da ultimo il bene più prezioso per colui che lotta: la speranza.
Se da un terreno sassoso togliamo i sassi ma non concimiamo e coltiviamo, il terreno continuerà a non dare frutti. Alla Sicilia servono politiche sociali e di crescita culturale e il nuovo strumento dell’antimafia deve essere un governo sano ed efficace nella regione. La repressione serve a riequilibrare, certo, ma non risolve i problemi: può farlo solo il buon governo, ma purtroppo la Sicilia sembra essere ancora all’anno zero. E questo non riguarda certo i giudici, ma soprattutto la politica, soprattutto quella locale.