“Restate a casa”! Quante volte abbiamo sentito, letto, scritto questa raccomandazione nei tre mesi passati? Una raccomandazione che ci richiedeva un grande sacrificio, un cambiamento di abitudini, una capacità di adattamento che ci sembrava non aver mai esercitato fino a questo punto.
Pochi fra noi, forse, hanno riflettuto sul fatto che poter definire sacrificio il rimanere a casa, in realtà è un enorme privilegio.
In questi mesi, nel silenzio assordante del Sahara, nelle paludi limacciose del Bangladesh, nel blu profondo del Mar Mediterraneo, nel panorama distrutto dai bombardamenti della Siria, sotto il sole e la pioggia, c’era un’umanità in movimento che, purtroppo, non è potuta restare a casa.
Fuggiva da guerre, persecuzioni, bombardamenti, fame, disperazione e cercava la speranza in un occidente prostrato dall’epidemia più drammatica del nuovo millennio.
Il COVID-19 non ha soltanto influito sull’aspetto umanitario dei movimenti di popoli, ma anche sul fronte economico come ricordano i dati condivisi da un report del World Economic forum.
Normalmente, gran parte della vitalità del mercato del lavoro e dell’economia internazionale è sostenuta da lavoratori migranti che, pur essendo il 3,4 % della popolazione mondiale, contribuiscono al 10% del PIL globale, una ricchezza che si concentra per il 90% in paesi occidentali.
In Italia vediamo come la carenza di lavoratori migranti specializzati sta mettendo a rischio la produzione agricola in numerose regioni.
Posto che, come dimostrano numerose statistiche, non solo nel nostro paese, dove il 9% del PIL è prodotto da lavoratori migranti, ma a livello globale, l’impiego di migranti genera crescita e ricchezza, è arrivato il momento che, nell’agenda della politica internazionale post COVID, si trovi un posto per ripensare i flussi di migranti economici.
Questi flussi, amministrati dagli stati che necessitano di lavoratori da inserire nei diversi settori dell’economia, dovrebbero diventare sicuri, efficienti e periodici e, soprattutto, essere gestiti sulla base di accordi bilaterali e con il supporto delle organizzazioni internazionali deputate (come OIM, “Organizzazione internazionale per le migrazioni” e UNHCR, “Alto commissariato ONU per i rifugiati”).
“Sarebbe necessario riconoscere il diritto al viaggio e alla ricerca di una vita migliore. Se questo avvenisse sarebbe più semplice e naturale una distinzione tra rifugiati politici e migranti economici, a livello dei paesi d’origine e di quelli di accoglienza o dei centri di raccolta. Questo consentirebbe di poter ricollocare in paesi sicuri gli accertati rifugiati politici e di creare poi flussi periodici di migranti economici, per inserirli regolarmente nei mercati del lavoro occidentali.”
Solo così possiamo pensare di risolvere questa questione sia sul piano umanitario che sul piano sociale, riuscendo ancora di più a rendere le migrazioni un valore aggiunto e un asset economico per gli stati occidentali.
Se oggi è il tempo di una ricostruzione dopo la crisi, cogliamo l’occasione per affrontare questa importante questione una volta per tutte.
Se non ora quando?