I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno depositato oggi le motivazioni della sentenza che riguardano il processo denominato “Mafia Capitale”. “Non sono stati evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso”. “Ciò non vuol dire che a Roma la mafia non ci sia, rilevano gli stessi giudici”. Si è riscontrato un “sistema” gravemente inquinato dal mercimonio della pubblica funzione ma senza alcuna forma d’intimidazione. Questo accade perché, sulla base del 416 bis c.p., le evidenze probatorie hanno portato a negare l’esistenza di un’associazione per delinquere di stampo mafioso poiché non sono stati riscontrati né l’utilizzo del “metodo mafioso”, né l’esistenza del conseguente “assoggettamento omertoso” ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa.
Questo scrivono i giudici della Cassazione nelle motivazioni della sentenza depositate oggi. Secondo i giudici di legittimità la parte fondamentale delle indagini preliminari relativa al vincolo associativo mafioso era cedevole. Si è escluso il carattere mafioso dell’associazione contestata agli imputati, riaffermando l’esistenza, già ritenuta nel processo di primo grado, di due distinte associazioni per delinquere semplici: l’una, dedita prevalentemente a delitti di estorsione, l’altra, facente capo a Buzzi e Carminati, impegnata in una continua attività di corruzione nei confronti di funzionari e politici gravitanti nell’amministrazione comunale romana ovvero in enti a questa collegati. La Corte d’Appello di Roma, a settembre del 2018, aveva ritenuto sussistente l’associazione per delinquere di stampo mafioso, con l’aggravante mafiosa e per le ipotesi di concorso esterno. L’accusa avanzata dalla Procura di Roma era di aver costituito una “nuova” mafia, con propaggini nel mondo degli appalti della Capitale.
La Suprema Corte al contrario ha ritenuto si tratti di un fenomeno di collusione generalizzata, diffusa e sistemica, il cui fulcro era costituito dall’associazione criminosa che gestiva gli interessi delle cooperative di Buzzi attraverso meccanismi di spartizione nella gestione degli appalti del Comune di Roma e degli enti che a questo facevano capo. Ciò ha portato alla svalutazione del pubblico interesse, sacrificato a logiche di accaparramento a vantaggio di privati. Un quadro non meno grave di quello delineato dall’ipotesi accusatoria, che però aveva attribuito alle due associazioni caratteri tipici della criminalità organizzata di stampo mafioso, le cui modalità di azione non emergono però, secondo la sentenza, dalle indagini svolte. Ciò che emerge è “un “sistema” gravemente inquinato, non dall’intimidazione, ma dal mercimonio della pubblica funzione. Una parte dell’amministrazione comunale si è, di fatto, “consegnata” agli interessi del gruppo criminale che ha trovato un terreno fertile da coltivare”. Alcuni imprenditori hanno accettato una logica professata da Buzzi, Carminati e dai loro sodali, basata sugli accordi corruttivi, intercorsi tra funzionari pubblici e imprenditori, convergenti verso reciproci vantaggi economici. In questo modo si è limitata la libera concorrenza e ciò è avvenuto attraverso forme di corruzione sistematica, che, però, non sono state precedute “da alcun metodo intimidatorio mafioso”. La valutazione della Corte Suprema di Cassazione è irreprensibile dal punto di vista puramente formale riguardo ai contenuti semantici dell’art. 416 bis del codice penale. Non si tiene, tuttavia, in considerazione (e questo sarebbe dovuto essere onere del legislatore prevederlo da tempo) che la mafia contemporanea è silente e mercatistica e non più violenta come le mafie tradizionali del passato. Il punto ruota tutto intorno all’applicabilità o meno del delitto di cui all’art. 416 bis c.p. alle nuove organizzazioni criminali, che si distinguono nettamente dalle mafie violente e intimidatrici di trenta anni fa ormai quasi scomparse.
La Cassazione, poteva scegliere di rimanere fedele al testo letterale della disposizione, in base alla quale è imprescindibile che il metodo mafioso trovi una concreta estrinsecazione nella realtà empirica, oppure, preferire un diverso orientamento che ritenesse non essenziale riscontrare un effettivo utilizzo dell’intimidazione, per cui non avrebbe rilevato la sua attualità ma la mera potenzialità. Si è optato per il primo orientamento. Personalmente ritengo si poteva trovare l’argomentazione giusta, ai fini della contestazione dell’art. 416 bis c.p. di un’intimidazione anche meramente ambientale e frutto delle relazioni di corruttela consolidate e in grado di piegare la libertà del mercato e della stessa relazione con la pubblica amministrazione. L’intimidazione può essere violenta ma anche di tipo induttivo (coartazione mediante corruzione). Al fine di evitare continue incrinature giurisprudenziali così nette, credo sia urgente una riscrittura totale della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 416 bis che inglobi sia le mafie violente di prima generazione sia le organizzazioni criminali contemporanee secondo un approccio meno formalista e più aderente alla realtà. E’ la persistenza del “metodo mafioso”, che caratterizza l’associazione per delinquere di stampo mafioso dall’associazione per delinquere semplice. Ed è proprio questo il punto debole dell’intero ragionamento che ruota intorno al 416 bis attuale e alle motivazioni della sentenza su “Mafia Capitale”. Oggi la mafia a livello normativo dovrebbe essere anche quella silente e mercatistica che si fa forte del potere economico corruttivo stabilmente infiltrato, senza intimidazione e violenza. Crimine organizzato e corruzione costituiscono ormai un unicum indifferenziato.
La criminalità organizzata moderna utilizza la corruzione come strumento privilegiato di operatività. Essa s’infiltra nell’amministrazione pubblica e nell’economia attraverso metodi non violenti. È perciò improrogabile la necessità di una chiara analisi di politica criminale che porti a una modifica normativa in considerazione proprio di queste metamorfosi mafiose. Una nuova fattispecie incriminatrice potrebbe far rientrare a pieno titolo nell’alveo dell’art. 416 bis c.p. anche le relazioni illecite fra apparati pubblici e crimine organizzato in forma stabile e associata che caratterizzano il fenomeno storico delle mafie contemporanee. Vorrei precisare che il venir meno della violenza e dell’intimidazione come strumento principale di operatività di queste organizzazioni criminali non le rende meno pericolose, anzi, è vero il contrario. Il mio maestro Antonino Caponnetto m’insegnava che le mafie si evolvono e si adattano e quasi si plasmano al contesto sociale, economico e politico di riferimento e s’infiltrano nell’economia e nella politica, ad alti livelli. Per questo oggi sono convinto più che mai che sia arrivato il momento di adattare e migliorare gli strumenti per contrastare le nuove forme e le sfide della criminalità mafiosa. Tra questi c’è anche la riscrittura del delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso.
Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark. E’ ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. E’ stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto.