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«Il lavoro d’arte deve darci del fuoco». Pietro Parigi xilografo fiorentino

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Di solito recandosi al Museo dell’Opera di Santa Croce di Firenze vi si cerca il Crocifisso di Cimabue, si inseguono i Della Robbia con le loro straordinarie terrecotte invetriate, forse solo i più fanatici scovano gli affreschi del Gaddi, San Lodovico di Tolosa di Donatello. Ma gli xilografi no invece, loro, alla Basilica di Santa Croce vogliono qualcosa di più nascosto, di meno persistente.  Qualcosa che è uguale alla loro disciplina: oscura, difficile, lontana dal gusto contemporaneo, proprio come fu Pietro Parigi, xilografo lui di razza, che ebbe i natali a Settimello di Sesto Fiorentino sul finire dell’Ottocento e che qui ha lasciato la sua impronta lunga un secolo fatta di legni incisi, di carte stampate, di bulini affilati.

Ricordo che in visita alla città toscana con un amico, anch’egli incisore e tra i maggiori xilografi italiani di oggi, Francesco Parisi, decidemmo di dedicare il pomeriggio a Pietro Parigi. Entrando in un chiostro laterale del complesso di Santa Croce, chiedemmo informazioni a un addetto della sezione del museo di nostro interesse, quella dedicata appunto allo xilografo. Il giovane, un tipo gentile con fare da frate e una lunga barba rossiccia, ci spiegò che il Museo Parigi, facendo parte del ‘complesso’,  non si potesse visitare separatamente. Ci spiegò ancora come il museo contenesse «opere mirabili del Giotto, del Cimabue, la tomba del Michelangiolo, il Brunelleschi». Chiarimmo all’esterrefatto custode come fosse inutile insistere ché noi si voleva vedere le carte del Pietro in santa pace per poi tornarcene a casa. Dopo lungo dibattito, ci arrendemmo infine all’evidenza di dover fare il ‘biglietto d’ingresso generale’ alla biglietteria. Qui fummo riconosciuti: «ma voi siete quelli del ‘Museo Parigi’!». Tutto ciò non deve stupire: lo xilografo è per definizione ai margini di qualunque discorso artistico.

Pietro Parigi, 4 uomini sul calesse

Pietro Parigi, La guerra dei figli della luce

Eppure è indubitabile che Pietro Parigi un posto importante nella storia dell’arte lo debba avere. Non fosse per la fermezza delle sue idee, la limpidezza del suo segno, la perentorietà di uno stile portato avanti con coraggio e nitida visione delle cose, dentro il suo tempo e insieme sempre fuori da ogni contesto. Lui cristiano convinto eppure anticonformista. Cosciente del limite che si impone sull’uomo fino a poter dire: «Molti di noi non siamo nati artisti e con lo stile si cerca di fare dell’arte», per mettere in guardia, prima se stesso, dai rischi del formalismo. Quindi non l’arte per l’arte ma nemmeno il dubbio che l’arte possa avere «per fine il morale». Lontano da una visione stereotipata del cattolicesimo. Fino a scatenare − con i propri disegni, colmi di pathos e pervasi di misticismo dove mai si lascia spazio al pietismo e alla rappresentazione stereotipata della fede − il disappunto dell’«Osservatore Romano» che commentava negativamente le sue illustrazioni per la rivista «Il Frontespizio» poiché l‘arte cristiana avrebbe dovuto esigere «un minimo di garbo e compostezza». Con la rivista fiorentina egli collaborerà dalla sua nascita nel 1929 e fino al 1937, quando, nell’ottobre, gli sarà dedicato un intero fascicolo dove appariranno alcune delle sue xilografie più suggestive. Ma a lui che guarda al duro intaglio delle sgorbie di Emilio Mantelli − citato come ispirazione − e di Lorenzo Viani che «dà ragione all’istinto» e «dimentica ciò che era nell’intelletto», interessa una sintesi spogliata di ogni abbellimento, spesso ottenuta con i grafismi ora fluidi, ora secchi e violenti scarnificati sul legno di filo: «ora non siamo più capaci di fare un vero Cristo. È bandito dall’umanità e anche l’artista non lo sente». Gli artisti primitivi «ai loro tempi erano dei moderni» e quindi oggi egli «non deve mica lavorare per sé, non deve fare un documento in casa al suo egoismo» pretendendo l’ammirazione. Il primitivismo da lui palesato non deve essere letto, in luce di queste precedenti affermazioni, con una chiave antistorica o aristocratica.  Parigi è invece di una modestia che indispone come scrive il suo amico Pietro Bargellini: «quando c’è da avere un incarico, da farsi avanti, sparisce».  Per lui le figure, anche quelle religiose, stanno dentro l’artista, e l’artista non può, con un preconcetto, sapere a priori come debbano essere fatte perché «l’arte sta sempre dentro un segreto».  E lui, l’uomo e l’artista restano un segreto, nella loro assoluta lontananza dal desiderio di fama. Con, questa volta sì elitario, sprezzo, gode nel non far accorgere gli altri che soffra ma non si nasconde però che, riposando sul letto, «i pensieri di nostalgia» lo assalgano «come tante vespe intorno a una carogna». E che la sua mano sia «docile strumento della immagine dello spirito» è palese sin dall’inizio della carriera quando illustra, nel 1918, la rivista del fratello Luigi, «Critica Musicale», coniugando la passione per l’arte a quella per la musica − fu organista di talento. E ancora di più nella miriade di xilografie realizzate per gli editori L’Eroica, Formiggini, Bemporad, Vallecchi; a corredo delle numerose riviste alle quali contribuì. Per i numerosi manifesti che realizzò collaborando con il Teatro di San Miniato o per «Città di Vita» il periodico dei Frati Minori Conventuali di Santa Croce. Qui il suo stile scarno ben si adattava al messaggio diretto dell’affiche. E se negli anni Quaranta egli raggiungeva la maturità infine, una nuova, imprevista freschezza, incisore ormai ottantenne, non lascia dubbi in merito all’enorme talento di un uomo in fondo solo  di lui si raccontano in sottofondo disperati amori forse mai corrisposti. Di un individuo scettico nei confronti della teoria dell’arte se crediamo alle sue parole, quando trasferitosi a Perugia nel 1953 per attendere alla Cattedra di incisione dell’Accademia di belle arti, vi resterà fino al 1962, chiudeva il diario − tutte le citazioni che avete letto sono tratte dai suoi ‘quaderni’ − con queste parole: «ora basta con lo scribacchiare».

Non ci si può innamorare «del proprio Fantasma» perché «il lavoro d‘arte deve darci del fuoco» e il fantasma deve bruciare per avere il suo calore.


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