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Giornata del rifugiato, Centro Astalli promuove incontro con l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi

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Scelta opportuna quella del Centro Astalli, la sezione italiana del Jesuit Refugee Service. In occasione dell’imminente giornata mondiale del migrante ha organizzato un incontro con l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, e con la giornalista del servizio pubblico Bianca Berlinguer. Fede e informazione sono le forche caudine o gli ascensori: o ci si piega a una visione che esclude o ci si eleva al rango di esseri umani: molto dipende da come fede e informazione spiegano questo punto che riguarda milioni di persone ai cittadini.

La centralità della questione per il domani è stata presentata benissimo da entrambi gli interventi. Ma con loro quelli del Centro Astalli hanno voluto che ci fosse una filosofa, Donatella Di Cesare. Che è stata fondamentale per capire come anche il linguaggio ci possa tradire, piegare preventivamente a logiche assurde.

Pacata, accurata, Donatella Di Cesare ha fatto notare che è proprio del linguaggio comunemente accettato distinguere tra migranti economici e rifugiati. Cosa capirò? Che ci sono delle persone che vengono in Italia per vivere meglio, per motivi economici dunque, e altri che vengono in Italia perché perseguitati. E’ a questi ultimi che devo un riguardo. Certo. Ma Donatella Di Cesare ha fatto notare che nel linguaggio comune si dice  anche che i migranti possono essere  utili. È un’apertura, si afferma. Perché fa notare che ci possono servire, cioè, per la nostra economia. Dunque l’economia, l’utilitarismo, fa parte della nostra natura, del nostro modo di rapportarci agli altri, ma non è un degno motivo per proteggere i migranti economici, che vanno distinti dai rifugiati. Strano, no? L’utilitarismo, non la solidarietà, funzionerebbe per noi, ma non per loro.

E se provassimo a ragionare da essere umani? Ragionando da esseri umani, ha fatto notare Donatella Di Cesare, noteremmo che è nella scelta di lasciare il proprio territorio in condizioni estreme, magari giocandosi tutto il poco che si ha per una scommessa che può costare la vita, che c’è qualcosa di innaturale, traumatico. E’ un migrante economico, cioè una persona che viene per provare a meglio vivere, il migrante che arriva in Italia su un barcone? Sta facendo una scelta “normale”, da valutare? E mi sono ricordato dei film sugli italiani che andavano in America coperti di stracci. Una canzone del tempo, napoletana, che da piccolo sentivo spesso perché mio padre la metteva spesso, fa dire loro: “ e cene costa lacrime ‘st America, a noi Napulitani, a noi che se chiagnimmo o ciel e Napoli, comm’è amaro stu pane.” Non abbiamo bei racconti di Ellis island, e davanti ad Ellis island non c’erano navi da guerra a pattugliare il mare per impedire gli sbarchi.

Dunque da piccolo sono abituato a non considerare il migrante economico come un privilegiato rispetto a chi fugge,  un “utilitarista” che sceglie di provare a star meglio. Così  le considerazioni di Donatella Di Cesare mi hanno riguardato, mi hanno fatto chiedere se anch’io non abbia detto “i migranti ci servono”. L’ho detto, è vero. L’ho detto e se avessi potuto le avrei voluto dire che qui forse c’è una piega linguistica alla quale aggrapparsi per salvarci. Non abbiamo bisogno dei migranti solo perché sono braccianti in un Paese dove sempre meno persone accettano il lavoro bracciantile. Ci servono per scoprire altri modi in cui cucinare il riso, altri modi di vivere, altri modi di sorridere. Ci servono per non vivere da soli, rinchiusi qui dentro. Ci servono per scoprire che il cielo di Napoli può incantare anche loro, come a noi incantano l’acqua dei Caraibi e le dune del Sahara. Insieme potremmo fare un sacco di cose, per loro e per me. Siamo dunque tutti nel bisogno nell’altro. Insomma è proprio vero, dobbiamo cambiare linguaggio per esserci utili e non condannarci da soli al male peggiore, la solitudine.


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