Non parliamo di “caporalato”. Ma più precisamente di “intermediazione fittizia di manodopera”. E’ un reato penale ed è questa l’accusa principale con cui la sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano ha messo in amministrazione giudiziaria la filiale italiana di Uber Eats. Il gigante USA della gig economy imponeva ai rider (“collaboratori”) condizioni capestro ma lasciava il “lavoro sporco” a due società milanesi che, stando alla indagini, avrebbero svolto intermediazione di manodopera per la filiale italiana del gruppo americano.
Il profilo delle condizioni di lavoro che emerge dalle carte dell’inchiesta fa spavento. Nel 2020 ci troviamo in Italia un gigante come Uber in amministrazione giudiziaria perché “pienamente consapevole della situazione di sfruttamento” aveva “collaboratori”, ossia i rider, pagati “3 euro l’ora” e vittime di punizioni che forse appaiono meno brutali perché tutte si concretizzavano da remoto, non di persona. Toglievano mance, parte dei compensi già pattuiti e controllavano con appostamenti i fattorini sotto la mannaia del blocco dell’account. Questa storia rappresenta una stortura che forse non si comprende appieno e che ha a che fare anche con i cococo dei giornalisti, strumento di sfruttamento legalizzato.
DI COSA PARLIAMO
Il servizio digitale fa incontrare la domanda di chi vuole il cibo del ristorante preferito a domicilio e l’offerta di operatori della ristorazione che in questi mesi si sono rivolti in massa a questo tipo di servizio che, va detto, è stato un antidoto per rispondere all’emorragia di fatturato della ristorazione italiana in lockdown.
Le indagini, condotte dalle Fiamme Gialle di Milano e coordinate da Alessandra Dolci e Paolo Storari, hanno coinvolto due società milanesi, la Flash Road City e la Frc, e la società italiana che fa capo a una holding olandese del gruppo Uber. I ciclo-moto fattorini lavoravano per queste due società ma Uber era non solo pienamente consapevole delle condizioni di impiego ma sosteneva e fomentava il “pugno duro” verso chi, per esempio, aveva una percentuale di accettazione della consegna inferiore al 70%, per esempio. L’indagine, partita a Milano, ha sta riguardando anche le condizionid i lavoro e Torino, Bologna, Roma e Firenze. L’interposizione fittizia di manodopera è un reato penale reintrodotto nel 2016 dopo la sua depenalizzato da parte del governo Renzi che lo infilò nel Jobs act nel 2015 sostituendolo, di fatto, con sanzioni amministrative.
Va detto poi che moltissimi rider impiegati e “puniti” con la sottrazione delle mance o il blocco dell’account erano persone in stato di bisogno come migranti, rifugiati, ragazzi. Non solo. I magistrati sospettano “reclutamenti a valanga e non controllati”. Il Tribunale di Milano ha disposto un provvedimento inedito nei confronti di una compagnia della gig economy, come il commissariamento di Uber Italy.
Lo ha denunciato più volte Articolo21 riprendendo anche le campagne lanciate in questi anni dalla Federazione della Stampa: i rider sono inquadrati come “collaboratori”. Anche se non hanno un ordine professionale o un albo, le loro sono “prestazioni di lavoro” come quelle dei giornalisti precari. Ecco, è questa area grigia tra il lavoro dipendente e il lavoro autonomo a nascondere lo sfruttamento paralegale del lavoro.
“La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora”, ha messo a verbale uno dei rider. Cottimo puro. Lo stesso con cui fanno i conti centinaia di giornalisti e giornaliste non dipendenti ingaggiati da editori che primeggiano in scelte unilaterali e sempre nel verso della riduzione dei compensi. I giornalisti precari, i “Co.Co.Co.” condividono più con i rider che con i redattori quando si parla di condizioni di lavoro. Non è questione di pochi né marginale.
E’ la base su cui stipulare un patto con le nuove generazioni: impediamo lo sfruttamento in questa “area grigia”. E sostituiamo dal vocabolario corrente il termine “lavoretti” quando si parla di coloro che prestano tempo, energie e risorse per un’azienda che ha il profitto come unico obiettivo e che per questo passa sopra a qualsiasi responsabilità sociale d’impresa. Lavoriamo restando umani. Sennò è un’altra cosa, non so cosa, ma fa rima con “sfruttamento”.