E dunque il Guccio ne fa ottanta: auguroni! Non ha bisogno di presentazioni, non ha bisogno di essere descritto: le sue canzoni parlano per lui, la sua arte ha fatto sognare intere generazioni, il suo carattere libertario, anarchico per vocazione e per esigenza, ha avuto la meglio su tutto, la sua visione della società ha spesso fatto la differenza, la sua lungimiranza costituisce una guida in questi tempi bui.
Francesco Guccini è un pezzo dell’Emilia, un personaggio che sembra uscito dalla raffinatissima penna di Berselli, uno dei cantori di un mondo giusto, dove le tasse si pagano e le leggi si rispettano, gli ultimi si prendono per mano, la Resistenza è sacra e il fascismo non è ammesso.
Abbarbicato sui monti di Pavana, al confine fra la Toscana e l’Emilia, là dove tanto sangue è stato versato nella lotta di Liberazione, questo remoto angolo di mondo conserva ancora tradizioni antiche, scolpite nella memoria e destinate all’eternità, in quanto frutto di storie montanare e contadine, di storie resistenziali, di storie umili e ricche di valori, di poesia, di bellezza, d’armonia.
Francesco Guccini è uno di quei miti che non invecchia mai: la lucidità è invidiabile, lo spirito indomito. È uno di quei personaggi che non finiscono di sorprendere, un uomo da trattoria, da vino rosso, da chitarra e felicità dispensata a piene mani. E il fatto che sia così amato anche dai giovani, ci dice chiaramente quanto siano insensate le pretese rottamatorie di alcuni giovani vecchi, soprattutto al cospetto di una qualità che non ha scadenza, non conosce anagrafe o certificato di nascita, travalica le stagioni e i cambiamenti del pianeta.
Guccini è un’icona della sinistra ma, in realtà, appartiene a tutti. È universale proprio perché non ha mai preteso di esserlo, rivendicando sempre con orgoglio le proprie idee e battendosi affinché si affermasse un altro modello sociale e di sviluppo.
Continua a scrivere, a lottare, a sognare, a credere in qualcosa e a votare a sinistra, anche se la sinistra, e questo lo sa e lo dice pure lui, ha drammaticamente smarrito la strada.
Una sera, per merito di un caro amico, ebbi modo di cenare nella trattoria “Da Vito”, dietro via Paolo Fabbri 43, la via in cui ha vissuto a Bologna e che dà anche il titolo a uno dei suoi dischi più celebri. Il proprietario sembrava uscito direttamente dagli anni Sessanta: uno di quei personaggi dell’Emilia ruspante che spiegava meglio di un trattato sociologico il senso di una città e di un’appartenenza. Mi raccontò che quando viene il Maestro è sempre una gran gioia. Non stento a crederlo, anche perché i tortellini col ragù alla bolognese creano l’atmosfera e il vino rosso della casa fa il resto. Il Guccio è questo: niente luci della ribalta, tutto genuino, spontaneo, come una volta. Con lui basta alzare un calice per essere felici e sentirsi comunità.
Buon compleanno e, soprattutto, grazie!
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di due grandi uomini di cultura, diversissimi tra loro ma accomunati dalla stessa levatura intellettuale. Addio a Tinin Mantegazza e Roberto Gervaso: ci mancheranno.
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