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Enrico Cuccia vent’anni dopo 

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Vent’anni fa ci lasciava Enrico Cuccia, signore e padrone del capitalismo italiano, uomo d’altri tempi, legato a schemi che purtroppo, in questo mondo di squali della finanza e capitalisti globali dal capitale talvolta iniquo, non sono più all’ordine del giorno.
Cuccia, di scuola nittiana al pari di Mattioli, Menichella e Beneduce, appartiene alla classe dirigente che ha contribuito a rimettere in sesto il Paese dopo la barbarie della guerra.
Cos’era, del resto, Mediobanca se non un glorioso patto di sistema, volto a favorire la ripresa dell’industria italiana e a ridurre le disuguaglianze, assicurando reddito alle imprese e favorendo quello che qualcuno, in maniera non proprio corretta, ha definito “patto di sindacato” fra potenti? Eppure Cuccia, checché se ne pensi, non aveva una concezione massonica dell’economia e della finanza, non intendeva la sua creatura come un luogo d’incontro fra baroni rampanti bisognosi di mutuo soccorso bensì come il cuore pulsante di un sistema che ebbe il merito di garantire una ripresa ordinata e di dare del tu alla politica senza mai pretendere di sostituirsi ad essa.

I Vanoni e i Saraceno appartenevano alla stessa scuola ma non interferirono mai nelle scelte dei vari Carli e Baffi, pur confrontandosi con il mondo bancario dall’alto di una competenza in materia di cui l’attuale classe dirigente ahinoi non dispone.
Diciamo che quel gruppo di menti brillanti, con una concezione già allora globale e l’idea che l’Italia dovesse recitare un ruolo significativo nel contesto europeo e mondiale nonostante le macerie belliche, ha avuto il merito di confrontarsi con la politica da pari a pari, credendo nella forza delle istituzioni e non illudendosi, come spesso avviene oggi, di poterne fare a meno.
Cuccia, in particolare, era solito dire che i voti si contano e le azioni si pesano, ben cosciente del fatto che le due cose fossero strettamente correlate e che ciascuno nel suo ambito avrebbe dovuto fare la propria parte per tenere insieme un Paese dalle passioni forti e dalle istituzioni fraili, con una sovranità drammaticamente limitata dagli accordi di Jalta e un gran bisogno di includere nel processo decisionale quei vasti settori della società che si trovavano fuori dalla stanza dei bottoni.

Il principio cardine di Mediobanca era quello di favorire l’industrializzazione e lo sviluppo dell’Italia secondo criteri umani, capaci di far convivere la necessità delle imprese di espandersi sui mercati globali con quella di tutelare i diritti dei lavoratori, salvaguardando così la tenuta della democrazia.
L’aspetto più affascinante di quella classe dirigente è che, come ha ricordato Giorgio La Malfa in un bell’articolo sul Mattino, fosse composta per lo più da uomini del profondo sud, ragazzi partiti da terre sfortunate e soggette a un’emigrazione forsennata verso una parvenza di benessere, a migliaia di chilometri da casa, mentre loro ebbero la forza di restare, affermarsi e far compiere all’intera comunità straordinari passi avanti.
Enrico Cuccia ci disse addio all’età di novantadue anni, al termine di un’esistenza vissuta lontano dai riflettori, in virtù di un carattere schivo e di una concezione antica dei ruoli e dei rapporti di forza. Ognuno al suo posto, nessuna invasione di campo, mai una polemica, toni bassi e massima concretezza: questa è stata la ricetta e diremmo quasi la missione di Cuccia e di Mediobanca. Oggi di quel modello, di quello stile e di quella concezione della società e del mondo è rimasto ben poco. La fa da padrona una nuova classe dirigente, spesso rapace, sempre rampante, talvolta incapace, a tratti indisponente e ahinoi caratterizzata da una visione del mondo e dei rapporti di forza che non tiene in alcun conto quegli equilibri che Cuccia era, invece, solito pesare col bilancino e che molti degli attuali elefanti in cristalleria ignorano del tutto. Le conseguenze di questo yuppismo fuori tempo massimo sono sotto gli occhi di tutti. La globalizzazione sregolata ha fatto il resto, favorendo l’esplosione di uno scontento, di una furia e di una rabbia sociale da cui sono scaturiti i grandi mali del nostro tempo: populismo, razzismo, sovranismo e xenofobia.
Una parte dei filibustieri attualmente in auge sa benissimo come pesare le azioni. Peccato che abbia dimenticato l’importanza di contare i voti, illudendosi di poter fare a meno del popolo e mostrandosi come una razza padrona che qualche osservatore particolarmente acuto e malevolo ha definito “capitalismo straccione”.
Addio agli uomini in grigio che ci hanno reso una potenza del G7. Il potere oggi è diventato virtuale, incorporeo, lontano, a volte inesistente e, per tutte queste ragioni, debole. Parlare oggi di poteri forti non ha alcun senso: appaiono tali solo perché la politica è sostanzialmente scomparsa. E il Paese, ormai, è sull’orlo dell’abisso.

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