L’ordinanza 132/2020 con la quale la Corte Costituzionale ha invitato il Parlamento a modificare le norme sulla diffamazione a mezzo stampa contiene analisi e considerazioni di altissimo interesse, sicuramente preziose per il giornalismo italiano. Nell’invitare il Parlamento a modificare l’articolo 13 della legge 47/1948 sulla stampa e l’articolo 595 del Codice penale, la Corte ha inviato un messaggio di straordinario valore e rilievo alla nostra professione.
Nel ricercare un delicato bilanciamento tra la tutela della reputazione della persona e la salvaguardia dell’attività giornalistica, che deve essere posta al riparo da “ogni indebita intimidazione”, la Corte chiama in causa non solo la responsabilità del Parlamento, ma anche il ruolo della disciplina esercitato dal nostro Ordine.
Difficile trovare una formulazione così nitida e ricca del complesso compito a cui tutti noi siamo chiamati per salvaguardare allo stesso tempo la dignità della persona e il diritto all’informazione: una soluzione che non può essere trovata esclusivamente per via giudiziaria, ma chiama in causa la deontologia e l’etica del giornalismo e il ruolo dell’Ordine.
Ci preme mettere in evidenza un passaggio cruciale dell’ordinanza: “Il legislatore, d’altronde, è meglio in grado di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco, che contempli non solo il ricorso – nei limiti della proporzionalità rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva dell’illecito – a sanzioni penali non detentive nonché a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come, in primis, l’obbligo di rettifica), ma anche a efficaci misure di carattere disciplinare, rispondendo allo stesso interesse degli ordini giornalistici pretendere, da parte dei propri membri, il rigoroso rispetto degli standard etici che ne garantiscono l’autorevolezza e il prestigio, quali essenziali attori del sistema democratico”.
Alle istituzioni e ai partiti chiediamo di non lasciar cadere questo appello della Corte costituzionale: l’autodisciplina è la miglior ricetta per evitare che l’attività giornalistica venga di fatto condizionata da una risposta di mero carattere giudiziario al problema del rispetto della reputazione della persona. Devono essere in primo luogo i giornalisti, attraverso i propri organismi, a vigilare, con ancor maggiore attenzione ed efficacia, sul “rigoroso rispetto degli standard etici” che garantiscono al giornalismo “l’autorevolezza e il prestigio”.
Perché ciò sia possibile occorre, oltre a una rigorosa critica di ogni comportamento omissivo, che il Parlamento riformi in maniera profonda le norme che regolano la disciplina. Con le attuali regole non è possibile assicurare una seria e attenta opera di vigilanza e sanzionatoria: cinque gradi di giudizio sono troppi, la possibilità di reiterare impunemente all’infinito le stesse violazioni deontologiche è inaccettabile, i forti limiti dettati dalla privacy alla pubblicizzazione delle sentenze costituiscono un impedimento a render noti gli esiti della “giustizia domestica”, in modo da rendere possibile un controllo pubblico del suo funzionamento.
Carlo Bartoli, coordinatore di ControCorrente per l’Ordine dei giornalisti