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Covid e recessione in America latina

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Dei quasi 460mila morti di coronavirus contabilizzati ufficialmente dal John Hopkins e registrati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sul nostro pianeta, oltre la metà sono sul continente americano, da un polo all’altro. Centomila in America Latina: Brasile, Messico, Cile, Perù e Bolivia i paesi nell’ordine più colpiti. Sono quelli i cui governi hanno scelto di privilegiare l’economia, evitando quarantene nazionali e rigorose che avrebbero inevitabilmente frenato la produzione. Ma che hanno finito per compromettere la salute e la vita dei cittadini senza salvarne le tasche. Ai lutti si sommano infatti forti recessioni nei rispettivi PIL. I consuntivi, niente affatto conclusivi, appaiono disastrosi.

L’intero subcontinente veniva da 6/7 anni di crescita molto ridotta, la minore dal 1950. La totalità delle economie della regione vive soprattutto della loro capacità di esportare di materie prime: agricole, minerarie ed energetiche. Già logorate dalla caduta dei commerci internazionali a causa della guerriglia doganale tra Stati Uniti e Cina, la pandemia le ha colpite in una congiuntura debolissima, tra la stagnazione e la recessione. La CEPAL e la Banca Mondiale prevedono che per quest’anno i loro PIL cadranno dal 6,4/6,8% del Messico e al 6,5/6,8% del Brasile al 3,8/4,1% della Bolivia. Tagliando in Brasile la capacità d’acquisto del 92,2% della popolazione, in particolare le fasce meno abbienti, che costituiscono il 16,4 dei 212 milioni di brasiliani.

Messico (96,6%), Cile (96,4%), Perù (93,7%), Bolivia (85,6%) seguono stime proporzionalmente analoghe, che lasciano indenni quando non perfino avvantaggiate rispetto alle condizioni precedenti solo le rispettive, ristrettissime élites (tra il 4 e il 7% delle popolazioni). Con problemi crescenti di indebitamento, conseguenti difficoltà di finanziamento dei deficit di bilancio, quasi impossibili nuovi investimenti di rilievo e prospettive di recupero progressivo solo a partire dal 2022. Emblematico il caso del Perù, oltre 32 milioni di abitanti, che dopo anni di forti turbolenze cominciava a stabilizzare il quadro politico-istituzionale e quello economico. Ma si trova a fare i conti con un’economia per due terzi informale, lavoro nero, impieghi senza diritti, gli aiuti sociali dello stato che sono insufficienti (220 USD in 3 mesi ai più necessitati).

In un simile panorama, non deve sorprendere se pur lontano dall’esaurirsi il pericolo dei contagi a somma geometrica portato dal coronavirus, molti paesi apriranno le già allentate quarantene (in alcuni casi mai davvero applicate seriamente). Nella grande maggioranza dei casi, i dati sul lavoro precario indicano la quantità delle persone che se non escono per trovarsi un qualsiasi impiego occasionale, in casa nessuno mangia (letteralmente). I governi sono dunque sottoposti alla duplice pressione degli imprenditori che non vogliono fermare le proprie imprese e della mano d’opera meno qualificata costretta a lavorare per sopravvivere e quasi teme più l’inedia del Covid19. Solo paesi con forti sebbene logorate classi medie (Argentina e Uruguay, tra i pochissimi esempi), possono almeno in parte sottrarvisi.


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