Gabriele ‘Billy’ Balestrazzi e Giorgio Triani (in rigoroso ordine alfabetico) sono giornalisti prestati all’Università; con un notevole successo di risultati accademici. All’Università degli Studi di Parma, per essere precisi, dove sono docenti del corso di laurea magistrale in Giornalismo, Cultura editoriale e Comunicazione multimediale; Triani è titolare dell’insegnamento che si occupa di Social media, news e comunicazione pubblicitaria, mentre Balestrazzi cura il Laboratorio di giornalismo. Per quanto riguarda la carriera giornalistica, Triani ha collaborato con molte testate, tra cui il Corriere della Sera, l’Unità, Italia Oggi, Famiglia Cristiana, Rai. Balestrazzi è stato lo storico direttore di Radio Tv Parma, oltre che capo-servizio del settore web della Gazzetta di Parma. Entrambi hanno pubblicato diversi libri sul mondo del giornalismo e della sociologia.
Con loro ho voluto parlare di giornalismo e pandemia, partendo da una domanda che – pur nel rispetto di un dato drammatico: 33mila morti per (o con?) Covid – vuole essere una provocazione.
Giornalismo e Coronavirus; uno dei due è una malattia…
«È chiaramente più malattia il Covid – risponde Triani – il giornalismo è una professione, una passione, una vocazione. Escluderei che il giornalismo possa essere un malattia; anzi, è segno del benessere di una società. Un giornalismo in salute è un indicatore di prosperità estremamente importante per un paese, forse quello primario; la libertà d’informazione, la completezza dell’informazione, la pluralità dell’informazione. Ognuno può avere le proprie idee, le proprie opinioni però tutti le devono poter esprimere; direi che non è una malattia, il giornalismo».
«Purtroppo abbiamo visto una malattia tragica, impensabile, straordinariamente crudele – aggiunge Balestrazzi – abbiamo avuto più di trentamila morti, abbiamo vissuto situazioni impensabili. Il giornalismo è fortunatamente tutt’altra cosa, ma anche il giornalismo non sta molto bene. Accanto a tante cose utili e belle che ha fatto il giornalismo, sono emersi anche i difetti, se non vogliamo chiamarli malattie, che da sempre conosciamo del giornalismo».
Qual è stato il ruolo del giornalismo in questo frangente storico?
«Ricorderei che la pandemia è iniziata come infodemia, come ha detto l’Organizzazione Mondiale della Sanità – dice Triani –. Prima di essere una pandemia è stata una infodemia; un’alluvione, uno tsunami di informazione che è arrivato dappertutto, mettendoci dentro di tutto e di più: e anche il suo contrario. Riprendendo il senso della prima domanda, forse più che il giornalismo è l’informazione che, da questo punto di vista, non è malata ma è in una condizione di grande difficoltà; dopo che sono arrivati i social-media, dopo che è cambiato il sistema dell’informazione. E le leggi di regolamentazione sono ancora quelle che c’erano quando non c’erano questi strumenti che consentono a tutti di dire ciò che vogliono; c’è una liberissima circolazione di fake, di notizie finte, verosimili, improbabili, improponibili, incredibili ma vere, vere ma impossibili… insomma, c’è un problema di questo tipo. L’infodemia è andata di pari passo con la pandemia».
«…con l’aggiunta – replica Balestrazzi – che in questo caso le prime fake-news sono state, contrariamente a quello che avviene di solito, fake-news ufficiali. Ovvero, si dà per scontato, almeno a livello di sospetto, che laddove si è creata la pandemia, in Cina, non sono state date dal regime quelle informazioni che avrebbero potuto risparmiare decine di migliaia di morti in tutto il mondo; e ciò è avvenuto perché non c’era un giornalismo libero che poteva essere in grado di fare contro-informazione. La cosa grave è che, oltre al fenomeno fake-news come siamo abituati a conoscerlo, la mancanza di informazioni è venuta da chi è deputato a dare informazioni serie, appunto: un governo. Così capiamo cosa significa avere un giornalismo non libero di muoversi; dopodiché è accaduto quello che dice Giorgio e lo stiamo scontando tutt’ora. Paradossalmente, adesso che la malattia “vera” tra quelle che hai paragonato tu prima, sta forse allentando la sua morsa, anche in società come la nostra tornano fuori fake-news vere e proprie; siamo all’indomani di una manifestazione, lasciami dire, di cialtroni che dicono che il virus è un’invenzione».
Ad un certo punto, in Italia, abbiamo assistito alle conferenze stampa senza giornalisti, con il Presidente del Consiglio dei Ministri che dava informazioni con la diretta Facebook, senza confrontarsi con le domande dei cronisti; è un nuovo modo di “fare” giornalismo?
«È un segnale che, rispetto a una situazione eccezionale, tutto è fuori controllo – spiega Triani – . L’idea che si possa far comunicazione istituzionale attraverso Facebook lo trovo aberrante; la comunicazione istituzionale delle 11 e mezza di sera, su Facebook non sta né in cielo né in terra. È lo specchio deformato di una realtà presente da tempo; Salvini che faceva le dirette su TikTok la mattina dal terrazzo del Ministero dell’Interno, i 5 Stelle abituati a fare queste sceneggiate; è un mondo di pagliacci, se posso usare un’espressione un po’ forte, che non hanno la consapevolezza di esserlo. Ed è grave che i cittadini lascino passare tutto senza indignarsi. Rischia di essere un punto di rottura e che, da qui a poco, si sentirà il bisogno di creare degli equilibri; si avrà il bisogno di mettere delle regole, di regolare un sistema che al momento è completamente deregolato».
«È stato enorme quel che è successo – riflette Balestrazzi –, con l’Italia che s’è trovata, subito dopo la Cina, a essere il primo paese al mondo coinvolto in un’emergenza inimmaginabile. È giusto avere un minimo di tolleranza per gli errori; detto questo, sono in buona parte d’accordo con Giorgio. Se in un primo momento si potevano giustificare degli sbagli, poi di sbagli “insistiti” ce ne sono stati fin troppi. Sin dal livello istituzionale, con le conferenze stampa in solitaria da ‘salvatore della Patria’ di Conte, il quale avrebbe dovuto anche plasticamente richiamare all’unità e alla coesione. Pur aggiungendo che anche le opposizioni han fatto più comizi che interventi per dar l’idea di statisti che meglio di Conte avrebbero potuto gestire la situazione. È stata una comunicazione elementare, banale e un po’ miope; questo è però il difetto che ha la politica, che rispecchia il difetto che abbiamo noi. Si sperava che una simile tragedia avesse come catarsi il risultato finale di farci migliorare; l’ho pensato tante volte, nei giorni in cui eravamo chiusi in casa. Ma adesso comincio a credere che aveva ragione chi diceva che ne usciremo peggiori».
Comunicare “ai tempi del Coronavirus” non è come far giornalismo “in tempo di pace”; i giornalisti sono stati all’altezza del compito?
«Bisogna distinguere chi ha voluto essere onesto e corretto da chi ci ha “navigato”. Come diceva Billy, c’è chi le cose non le ha volute raccontare, come la Cina, ma c’è anche chi ha lavorato bene. Nel panorama internazionale penso a The Guardian, The Conversation, The Atlantic su cui ho trovato articoli molto interessanti; più sul web che sulla carta, mi vien da dire. Mi viene anche da dire che oggi il giornalismo più immediato, anche se forse non sempre fatto bene, è quello del web. È un giornalismo che nel momento in cui scrivi una cosa ti rimanda continuamente alle fonti; consente di costruire articoli che rimandano all’infografica fatta dall’organismo attendibile, consente di linkare all’articolo molto interessante. Ti mette in comunicazione con gli altri e con le migliori espressioni sull’argomento, permette al lettore di farsi un’idea fondata di ciò di cui si sta parlando. Sulla stampa invece ho letto cose che… forse perché la stampa è sempre più vecchia, come tipo di rapporto rispetto alla realtà; sul web è una realtà che fai in progress, la racconti mentre avviene. La televisione ha segnato il disastro, sono spuntati centinaia di esperti; han detto cose e poi l’esatto contrario. È stata data troppa importanza all’opinionismo, è stato spettacolarizzato l’opinionismo dissennato. È la cifra del giornalismo italiano, che – senza offesa per nessuno – non è dei migliori; ci sono ottimi professionisti, ma è un sistema un po’ malato…».
«Voi due mi conoscete, del giornalismo ne ho fatto una ragione di vita; ma non lo difendo a priori: anzi. Riprendendo il discorso finale di Giorgio, qui c’è da fare una grossa sottolineatura, ovvero il giornalismo in questo caso arrivava secondo, se non addirittura terzo. Era fortemente condizionato dalla politica e dalla scienza; c’erano virologi che dicevano una cosa e altri che dicevano il contrario. E allora lì, con tutti i difetti che possiamo attribuire a noi che facciamo questo mestiere, è chiaro che nessun giornalista ha in mano gli elementi per capire chi ha ragione fra chi dice “è una semplice influenza” e chi dice “sta per scoppiare una pandemia”. Abbiamo visto le difficoltà della scienza; e di fronte a questo il giornalista è disarmato; di fronte a due tesi nettamente contrapposte il giornalista può solo mettere a confronto le opinioni e cercare di spiegare, nel limite del possibile, quanto è attendibile l’uno e quanto lo è l’altro. Ma entriamo già in un campo minato, perché non avrei gli strumenti per giudicare tra due virologi chi ha ragione e chi no. Al giornalismo qualche attenuante la posso trovare, ma la politica è andata a ruota e in alcuni casi ha fatto peggio della scienza; e chi doveva ‘raccontare’ si è trovato spiazzato, però l’asciuttezza e l’onestà verso il pubblico avrebbero potuto circoscrivere questi danni, mentre invece l’attitudine che ha ogni trasmissione è quella di dare spazio a una sola tesi. In questo il giornalismo ha mancato, però almeno stavolta abbiamo visto, ancor più che del giornalismo, le difficoltà della scienza».
In merito all’esperienza che stiamo vivendo con il Coronavirus, alla ripresa delle lezioni universitarie, cosa insegnerete ai vostri studenti del corso di laurea magistrale in giornalismo?
«Credo che racconteremo quello che stiamo già raccontando da tempo; che il mondo dell’informazione sta cambiando a velocità siderale. Leggevo stamattina su Open un’intervista al direttore generale del New York Times, che ha riportato il giornale in grande attivo, il quale diceva che tra una decina d’anni la carta stampata sarà chiusa; e il bello arriverà col giornalismo digitale. Non sarà così per tutti, con i tempi che saranno diversi da paese a paese, ma credo che oggi come oggi il giornalismo digitale abbia non una ma tre o quattro marce in più; si vede già oggi, che sul web si leggono articoli lunghi, scritti con bei font, un bell’impaginato, una bella scelta sui colori. C’è un lavoro di grafica raffinato dietro e leggi molto bene anche cose impegnative su di uno schermo. Quindi l’idea di una volta di articoli brevi, break-news, cose veloci, titoli, sottotitoli e dida, “la gente non legge”, in realtà non è vero. I dati del Guardian dicono altro; tra l’altro, il Guardian è arrivato a 900mila persone che danno soldi. Sta cambiando tutto. La stampa dovrà trovare una nuova funzione, diventerà sempre più simile a un libro, rispetto che a un giornale. Racconteremo questo agli studenti, si spiegherà la scrittura ma con una ricerca applicata al web. Il Covid ha fatto esplodere questo, il Covid ti dice che siamo di fronte a un cambiamento epocale; era già in corso, ma questo lo accelera. Molte cose che sarebbero accadute tra qualche anno, adesso siamo costretti ad affrontarle tutti assieme. Dobbiamo mettere in conto che sarà una fase molto distruttiva, difficile, rischiosa; potrebbero nascere esigenze di autoritarismo alla Orban, alla Trump, alla Salvini. La democrazia potrebbe essere in pericolo; e se così fosse il giornalismo deve riscoprire la sua funzione estremamente importante che deve essere informativa ma anche formativa. Sono trent’anni che i giornali hanno abdicato la loro funzione formativa. La BBC sosteneva che bisogna divertire, intrattenere, educare; i giornali devono formare i cittadini».
«Io aggiungo un motivo di ottimismo e utopia, che è dato dai nostri studenti. Inizialmente erano più spiazzati di noi dal lockdown, perché io “da vecchio” dicevo che era un allenamento per quello che mi capiterà da qui a poco; ma loro si sono trovati in una situazione contro natura. All’inizio credevo che reagissero più loro di me, ma invece ero io a motivarli; poi hanno capito, da questa vicenda, che il giornalismo è davvero importante. Chi è iscritto al nostro corso di laurea ha sempre paura di aver fatto una scelta sbagliata, perché è un settore di cui tutti conosciamo le difficoltà; ma la tragicità di questa vicenda ha ricordato a tutti l’importanza del giornalismo serio. E questi ragazzi han capito che devono prendere in mano il loro futuro e forse anche il loro presente; spero che quanto torneremo nelle aule, avremo il distanziamento formale imposto dal virus, ma rispetto a quando eravamo in aula a gennaio o febbraio ci sarà un distanziamento minore. Il “tutti assieme” che Giorgio ha pronunciato poco fa smetterà di essere uno slogan e diventerà un modo di lavorare. Leggevo che per l’università in genere, ci sarebbe la necessità di un lavoro che nasca dal basso e che coinvolga i ragazzi, che han voglia di un intervento maggiore. Dovremo esser bravi noi docenti a non disperdere quella che è stata la loro reazione al loro smarrimento; dovremo essere all’altezza di trasformare questo disagio in carburante per una buona università e, in futuro, per un buon giornalismo».