“Bergoglio o barbarie”, anticipazione del mio libro in uscita per Castelvecchi. Domenica la presentazione ad Assisi

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Quando ero giovane con alcuni amici cercavo un nome accettabile da tutti, e nobile, che potesse unirci senza più dispute nel campo del movimento operaio. Come ora anche allora non apprezzavo l’idea del compromesso storico, ma allora perché ragionavo in termini abbastanza schematici, “buoni e cattivi”. E così proponemmo di unire le sinistre nel nome di Rosa. Quella dicotomia di cui ti ho accennato, “socialismo o barbarie”, ci esaltava, dandoci una certezza identitaria ideologico-umanista, accettabile a tutti. L’idea di «socialismo o barbarie» mi ha sempre commosso, perché pensavo che “socialismo” fosse un termine “puro”, senza macchia, che poteva smacchiare anche il comunismo. Insomma in «socialismo o barbarie» sentivo e sentivamo una verità: avevamo il compito di cambiare la storia. L’abbiamo cambiata? E come? Sai, al tempo nessuno di noi sapeva che quella frase Rosa Luxemburg in realtà l’aveva ripresa dal programma di Karl Kautsky (non da Engels) e Kautsky per i comunisti ortodossi era il “Rinnegato”. Solo quando l’ho scoperto ho capito perché avessi sempre avuto simpatia per Kautsky. Ma questo al- lora nessuno lo diceva e oggi capisco che la cosa importante a quel tempo per me era l’afflato universale, per la liberazione di tutti, e solo quel binomio, “Rosa Luxemburg e il suo slogan” poteva riuscire a unire. Ma mi chiedevo quale fosse, tra i tanti esistenti, il socialismo di Rosa? Oggi non credo fosse un socialismo libertario, ma il punto è che davanti a fatti enormi, di tale rilevanza per milioni di persone, noi ci siamo illusi che ci avrebbe messo sul piedistallo della storia un artificio. Poi, quando è stato abbattuto il muro di Berlino, non abbiamo ammesso che cadeva anche in testa a noi.

Molti anni dopo dunque quello slogan mi è tornato improvvisamente davanti. L’epoca Trump era già cominciata, non da molto, se ricordo bene Steve Bannon era ancora chief-strategist alla Casa Bianca. Un carissimo amico, docente negli Stati Uniti, mi chiamò, come per fortuna usa fare quando passa a Roma, e mi chiese di incontrarci per un caffè, in un bar vicino al Vaticano. Seduto davanti a me, mentre discorrevamo, mi disse che se fossi andato negli Stati Uniti avrei visto anch’io che «l’alternativa a Bergoglio è la barbarie». Rimasi di stucco: è ovvio che l’occasione era ghiotta per farmi raccontare dove stesse andando la destra cattolica con Trump, ma l’idea “Bergoglio o barbarie” arrivò davanti a me come un fulmine a ciel sereno, inatteso e sorprendente. Poteva riguardarmi? Devi sapere che l’ultima volta che ho partecipato a una celebrazione eucaristica da fedele è stato poco dopo la mia prima comunione. A quel tempo servivo messa nella cappella scolastica, ero quindi “un chierichetto”. Finché un giorno è successo qualcosa, non so dirti cosa, ma sono fuggito dalla cappella dicendo che non ci sarei tornato mai più. Cosa era successo? Davvero, non lo ricordo, ricordo solo che mi giurai che non sarei tornato mai più mentre mi allontanavo di corsa, infuriato, fuori di me, di questo sono certo. È seguita qualche intemperanza giovanile, dopo la quale ho capito che comunque la spiritualità riguarda tutti gli esseri umani, credenti, agnostici, non credenti, e ho lavorato a lungo con vero interesse, come giornalista, sugli argomenti che attengono alle religioni. Francesco mi aveva già sorpreso, interessato molto più dei suoi predecessori, ma quelle parole mi hanno sorpreso, mi hanno riguardato a tal punto che la mia capacità di seguire i racconti e le osservazioni del mio amico teologo si è inceppata. La sua voce è quasi svanita visto che seguivo un altro pensiero: quell’idea dopo essere caduta nel dimenticatoio della vita tornava per dirmi che era cambiata? Penso anch’io che cambiare sia il modo migliore per rimanere se stessi: ma se cambiare va bene, per me pensarmi papalino voleva dire molto di più… Ma quante conferme ho trovato lungo il mio cammino. Alle volte venivano dalla cronaca, altre dalla rilettura della storia recente. Vuoi degli esempi? Guarda, mi limito ai più semplici: chi ha firmato il “memorandum della vergogna”, quello italo- libico? E di che orientamento è stato a lungo il governo spagnolo che ha lasciato sparare sui fuggiaschi che giungevano seminudi a Ceuta e Melilla? Chi ha eliminato con un tratto di penna la distinzione essenziale tra banche commerciali e banche d’affari? Chi ha tracciato nel deserto siriano linee rosse per poi cancellarle precipitosamente quando sono state disgustosamente violate dal potere? Chi ha riempito di soldi Erdogan purché impedisse ai richiedenti asilo di arrivare in Europa? E chi ha annunciato senza mai metterci mano la riforma di Wall Street? Come vedi ti parlo solo dei “miei”, cioè dei presunti custodi del mondo democratico e liberale, forse lib-lab, come si diceva anni fa. Il discorso è abbastanza semplice e riguarda tutto il complesso rapporto con la globalizzazione e il “realismo”. I liberali, liberal-democratici e socialdemocratici, consapevoli che per fare politica occorra pragmatismo, non hanno capito che tradire i propri principi vuol dire tradire i propri interessi. In nome della realpolitik non hanno tradito i nostri principi pensando di fare i nostri interessi e mettendo così in ginocchio l’ordine liberale costruito dai nostri genitori al costo di prezzi enormi?

È così che ho dovuto vedere che l’alternativa alla barbarie oggi si trova nella testimonianza costante, anche al costo di sfidare consorterie imponenti, per il vivere insieme. Che tu sia progressista o conservatore conta, ma non tanto. Se non sei un illiberale o un intollerante posso dirti che tutto quello in cui abbiamo creduto nel secolo scorso, i diversamente fautori del trend liberale, oggi si ritrova in queste poche parole: «Imparare a vivere insieme». Se sei molto giovane quegli anni non potrai ricordarli. Comunque avrai sentito dire anche tu che prima dell’89 eravamo tutti o di destra o di sinistra, che oggi non esisterebbero più. Al riguardo è lecito pensarla come si vuole, ma è ridicolo parlare di un tempo magmatico, senza distinzioni. Chi nel secolo scorso ha difeso i suoi principi, ha difeso i nostri interessi; il mondo da allora è cambiato, ma il discrimine di allora c’è ancora; e oggi chi divide? Chi è fautore e chi avversa il vivere insieme. Vivere insieme tra chi? Innanzitutto tra persone che la pensano diversamente. E poi tra bianchi e neri, giovani e vecchi, abbienti e non abbienti, cittadini e stranieri, meridionali e settentrionali, credenti nell’una e nell’altra fede, credenti e non credenti, maschi e femmine. Anche del povero abbiamo bisogno, per ricordarci che il limite invalicabile è la dignità, nelle nostre periferie come nelle miniere africane dove estraiamo quel curioso metallo con cui facciamo i nostri telefonini, pagando i bambini che lavorano nel fango dall’alba al tramonto con pochi spiccioli al giorno. Degli altri invece ne abbiamo bisogno per vivere. Maschio e femmina dimostrano come senza diversità non ci sarebbe vita, è la dialettica maschio-femmina il segno più evidente che la vera dialettica è includente. Se allarghiamo il discorso vuol dire che l’uno è nell’altro, no? Così devo arrivare a pensare anche al- l’integralista. È un italiano come me, che vede le cose a modo suo, opposto al mio. Se trovassimo un modo razionale per vivere insieme potremmo abitare lo stesso quartiere senza bisogno di tenere un’arma dentro casa. Lo voglio? Lo vuole? Eliminarlo, realizzare l’ordine che preferisco, è possibile? Di più; è auspicabile? Questo bisogno dell’Altro per essere noi stessi rende il pluralismo sinonimo di vita e quando l’uomo ha capito questo è diventato “moderno”: nel nostro linguaggio “moderno” non è il sinonimo di “cogito”, è il contrario di superato, come il mondo prima della scoperta dell’Altro. Tutto questo lui lo ha detto in termini seri, profondi, nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium. Ricordato che il Vangelo definisce beati i costruttori di pace, lui scrive che i costruttori di pace rendono «possibile sviluppare una comunione nelle differenze», per questo definisce l’unità superiore al conflitto. «La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto». Capisci? In realtà dovrei chiedermi come mai io non lo abbia capito per così tanto tempo! «La diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un processo di riconciliazione, […] come ben insegnarono i Vescovi del Congo: “La diversità delle nostre etnie è una ricchezza. Solo con l’unità, con la conversione dei cuori e con la riconciliazione potremo far avanzare il nostro Paese”».

Spero che presto il trend illiberale sia meno potente. Ma comunque resterà il fatto che nei suoi anni ruggenti, in questi anni in cui l’Altro è tornato un nemico al punto che femminicidi e crimini a sfondo etnico- religioso sono diventati cronaca quotidiana, anche negli stadi, la sua voce non ha dimenticato per un giorno solo la necessità del pluralismo e quindi del vivere insieme. Dunque non si tratta di pensare che il suo magistero sia perfetto, tanto meno che lo sia il suo governo. Si tratta di riconoscere che il mondo si radicalizza perché si radicalizzano le sue malattie, in particolare la globalizzazione piatta e gli etnonazionalismi, quelli che vogliono tornare a dividerci in orde, compatte e impenetrabili e quindi eccitate dai tamburi di guerra, come tutte le orde. Nessuno è perfetto, ma questo non toglie che nel suo impegno per il vivere insieme c’è la risposta prima alle nuove barbarie. Oggi tutti notiamo che l’ordine liberale è in crisi. Ma cosa hanno fatto i liberali per tenerlo in vita? Avevano in tasca il biglietto vincente e lo hanno gettato alle ortiche pur di segui- tare a sedere al tavolo buono della globalizzazione finanziaria per poi attutire il credo nazionalista: «Va bene, odiamoci, ma senza esagerare».

Forse sei molto più giovane di me, o forse sei più anziana; forse sei una credente, forse un conservatore, o un agnostico, magari così agnostico che non sai neanche più per chi votare. In quest’ultimo caso, al di là del fatto se voto o non voto, saprai che la nostra di agnostici è la condizione più difficile, perché a differenza di tutti gli altri, atei o credenti, noi siamo gli unici che semplicemente non sappiamo cosa sappiamo. Davanti al mistero noi non sappiamo quale sia la risposta, anche se sappiamo che se ci fosse sarebbe meglio. Comunque non è mai troppo presto né troppo tardi per vedere che la spiritualità è per tutti, come dovrebbe essere la politica. Ecco come è stato possibile che la pace e quindi il pluralismo oggi siano difesi non dalla politica, non da autorità finanziarie, non da entità sovranazionali: tutto questo vive dentro crisi organiche, cioè nell’incapacità di dare risposte. Per questo la pace la difende un’autorità spirituale. Chi non sa, come me, può riuscire a capire almeno questo: «O impareremo a vivere insieme come fratelli e sorelle o periremo tutti come dei folli». Proprio Martin Luther King, come Gandhi e Nelson Mandela, lo ha testimoniato. Potrà risultare tranquillizzante fingere di non sapere che con Gandhi c’era un musulmano, Abdul Ghaffar Khan. Ma quella storia rimane, e adesso il suo testimone è nelle mani del primo papa che si è presentato alla Casa Bianca in utilitaria.


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