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Autonomia impossibile. La maledizione della Rai

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Una  maledizione pende sulla Rai e come un fantasma si aggira tra le sue stanze: è quella dell’autonomia impossibile. Una maledizione che prima che sull’azienda si scarica sulle spalle di professionisti (e ce ne sono) le cui qualità vengono periodicamente mortificate da questa o quella tornata di nomine. Chissà quante volte l’abbiamo scritto, ma tant’è: la politica di ogni colore si dimostra cronicamente incapace non solo, troppa grazia, di fare una riforma della tv che normalizzi un sistema fortemente oligopolistico, ma anche solo di provare a rendere autonoma la Rai dall’esecutivo e dai partiti. Francamente delle ultime nomine, visti gli avvicendati, fatichiamo a comprendere il senso, ma lo spettacolo è stato come al solito deprimente innanzitutto per coloro che ne sono stati oggetto, oltre che per quella parte di opinione pubblica che si aspetterebbe, dopo i proclami del passato, qualche briciolo di coerenza (prima o poi) tra il dire e il fare. Ciò non vale, sia chiaro, per la destra il cui programma storico è stato sempre quello di condonare e sanare illegalità ed abusi, così se va male alle elezioni ci sono le tre reti di Mediaset e se va bene a queste si sommano quelle della Rai. Ma vale invece per la sinistra e per i Cinquestelle, entrambi in passato pronti a gridare ‘mai più’ in nome del pluralismo e contro la lottizzazione, per smentirsi alla prima curva.

Ora non vogliamo certo dare tutta la croce addosso agli ultimi venuti, dopo decenni di allegre e condivise spartizioni, a volte rispettose dei meriti ma spesso no, però da Zingaretti e dai Cinquestelle un passo in avanti riformatore, uno sforzo in più rispetto alle solite pratiche ce lo aspetteremmo. Emergenza o no. Anche perché, a fermarci solo alla Rai, di proposte possibili ce ne sono. La sinistra in particolare ne ha predicate tante, anche di interessanti, salvo poi razzolare male. Non diversamente dai grillini che ad esempio con l’attuale presidente della Camera Fico depositarono un progetto che prevedeva la nomina della governance  Rai per sorteggio tra una rosa di nomi qualificati; mentre Di Maio ancora a febbraio 2018 prometteva solennemente di garantirle quell’autonomia che aspettava da sempre. Purtroppo s’è visto com’è andata a finire, con l’avvilente trattativa per la nomina di Foa, l’insensato invio di Barachini (giornalista Mediaset) in Vigilanza (non metti a capo di un’azienda uno che tiene per la concorrenza) e, a seguire, l’indecente casting per le nomine: accadimenti che replicavano quella schizofrenia, idee buone/prassi cattive, fino ad allora appannaggio della sinistra.

Dicevamo che le proposte ci sono. Oltre a quella del sorteggio c’è quella che prevede di affidare la Rai ad una Fondazione che nomini i vertici dell’azienda. Oppure, perché no, si può riesumare, magari in parte, il vecchio progetto di Gentiloni quand’era ministro con Prodi, che prevedeva sull’esempio francese un Consiglio per le Comunicazioni composto da 21 membri (7 indicati dai presidenti delle Camere, 11 da sindacati, imprenditori, artisti, associazioni di utenti, università e consumatori, 3 dalle regioni, dall’Anci e dall’Unione delle provincie), un progetto tra l’altro passato alla Camera nel 2007. Proposte che vanno bene tutte: si scelga una strada e la si percorra.

Abbiamo ancora la fortuna di avere un servizio pubblico che rimane centrale nel paese, unico in Europa, e lo si è visto in questa emergenza. Piuttosto che preoccuparsi allora di ricollocare Orfeo  o Di Mare, piuttosto che parlare a vanvera di privatizzazione o abolizione del canone, non sarebbe il caso di mettere mano, in attesa di una riforma di quella vergognosa legge-condono firmata Gasparri, ad una riforma che, oltre a risparmiarci la nausea di certi spoiling turn, fornisca alla Rai la necessaria continuità manageriale ed organizzativa per competere con i concorrenti?


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