Erano le 18 di un afoso lunedì di inizio giugno, il giorno 10 per l’esattezza, quando Benito Mussolini si affacciò dal balcone di Palazzo Venezia per pronunciare uno dei discorsi più pericolosi e imbarazzanti di sempre. In quell’urlo guerresco, “Vincere e vinceremo!”, in quel piglio da condottiero ancora per poco saldo al potere, in quella retorica militaresca, vero emblema del regime, erano racchiuse le ragioni della nostra prevedibile disfatta. Del resto, ci eravamo seduti al tavolo della guerra con l’auspicio cavouriano di poterci sedere, in pochi mesi, al ben più redditizio banchetto della pace. Credevamo di poter ottenere lo stesso risultato ottenuto dal conte di Cavour quando si ingraziò inglesi e francesi impegnati nella Guerra di Crimea, inviando a loro sostegno le truppe del Regno di Sardegna e ottenendo in cambio un appoggio nella Seconda guerra d’indipendenza.
Tralasciando la follia di questa decisione, la sua mancanza di logica e la sua barbarie, considerando che costituì una pugnalata alla schiena ai danni della Francia già messa in ginocchio dall’avanzata nazista, fu per fortuna anche la tomba di quel demone chiamato fascismo. Certo, il costo da pagare fu altissimo: una tragedia che costò al mondo intero circa sessanta milioni di morti e al nostro Paese una devastazione senza precedenti, oltre alle disastrose campagne sul fronte greco-albanese e russo, alla mattanza di Cefalonia, alla dichiarazione di Roma città aperta, all’occupazione nazista, a episodi di una ferocia inumana come la strage delle Fosse Ardeatine e a eccidi come quelli di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema.
10 giugno 1940, ottant’anni fa. Fu il giorno della vergogna, dell’abisso, della sconfitta della dignità. Fu il giorno in cui vennero giu vent’anni di bugie, di promesse tradite, di sogni infranti. Fu il giorno in cui il fascismo mostrò il suo vero volto: guerrafondaio, ferino, intollerabile. E fu il giorno in cui anche la monarchia di casa Savoia, che non si era opposta né alla Marcia su Roma né alle Leggi razziali né a nessun aspetto del fascismo, specie negli anni ruggenti della sua ascesa e del suo consolidamento, si giocò, leggendo le vicende col senno del poi, la propria permanenza alla guida della Nazione.
L’Italia è repubblica grazia alla Resistenza e alla Liberazione ma anche grazie a quel maledetto giorno, perché è allora che il Duce commise l’errore fatale di sentirsi onnipotente e pose le basi del suo annientamento.
10 giugno 1940, ottant’anni fa. Ricordare quel discorso, e soprattutto ciò che ne è derivato, è indispensabile per non ripetere quei crimini, per contrastare il falso mito del fascismo, per ribattere con elementi concreti al discorso di chi sostiene che abbia fatto anche cose buone e per ribadire che non può esservi nulla di buono in una dittatura fondata sulla soppressione di ogni libertà di pensiero, di parola e d’azione.
10 giugno, l’inizio della fine. E una vergogna che non ci abbandonerà mai.
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