Molto sta facendo discutere, nelle cronache giornalistiche italiane, a proposito di Silvia Romano, la sua conversione all’Islam. La nostra opinione pubblica si è divisa in due tronconi: uno, grazie al cielo maggioritario, che la rispetta e non giudica; l’altro, è invece l’espressione del vituperio, del disprezzo, dell’odio verso una giovane donna, cooperante, per 18 mesi nelle mani di rapitori in Somalia. Nel primo campo, prevale il rispetto per la dignità della persona, della sua sofferenza, della sua libertà. Nel secondo campo, prevalgono gli spettri della condanna disumana, figlia dell’ignoranza e della convinzione che esista ancora una sorta di guerra di civiltà, nella quale la superiorità è riferita esclusivamente alla civiltà occidentale. Così, in questo campo dell’odio sono emersi giornalisti dalla condanna facile e dalla facile equazione: islamico=terrorista, un modo per falsificare la storia, recente e passata. Riconoscere in ogni convertito all’islam una sorta di pericoloso terrorista e jihadista (a proposito, costoro ne conoscono l’autentico significato?) non è solo un’offesa alla realtà dei fatti, ma è soprattutto essa stessa pericolosa propaganda che incita all’odio religioso ed etnico e dunque alla barbarie. Ci sono, purtroppo, terroristi di fede islamica e terroristi di fede cristiana, tutti loro sbagliano, anche sul piano della loro stessa religiosità.
Credo che abbia ragione Vincenzo Vita quando scrive: “Com’è triste una parte dell’informazione italiana sulla vicenda di Silvia Romano. Invece di gioire per la liberazione di una giovane impegnata in Africa per profonde ragioni umanitarie, si trova il modo di aggredirla. Nei suoi sentimenti privati, nelle scelte religiose che ne sono l’espressione più autentica. Tanto per gettare fango e insinuare dubbi. Su cosa? Sull’Islam? Su un abbigliamento? Perché è una donna? Sui caratteri di una trattativa, senza la quale piangeremmo una giovane cooperante morta? Per fortuna, siete soli con i vostri fantasmi”. Ed ha ragione il direttore del quotidiano dei vescovi italiani Avvenire quando, richiamando espressioni unanimi di vescovi e di parroci, scrive in un editoriale dal titolo “La vera gioia e la vergogna”, a proposito degli odiatori che “si sono presi una pesante responsabilità, questi propagandisti del niente travestito da valori forti, e prima poi troveranno uno specchio davanti al quale vergognarsi” perché, conclude Tarquinio, “l’Occidente della libertà e del rispetto, la Parola che è Cristo e che illumina e cambia la vita sono un’altra cosa”.
Va aggiunto che i tre papi del nuovo millennio, Woytila, Ratzinger e Bergoglio hanno disperatamente cercato, dinanzi a un Occidente secolarizzato e deprivato del sacro, la fede nel Dio unico che accomuna le tre religioni monoteiste, che si fanno carico delle sofferenza di tutta l’umanità. Essere ebrei, cristiani o musulmani non è più la scrittura di una guerra tra religioni, di una storia che si è finalmente conclusa attraverso lo sforzo straordinario del dialogo interreligioso. Non sapere e non capire questo passaggio, da parte dei nostri e di tanti odiatori di professione nel mondo, significa non essere né autentici ebrei, né autentici cristiani e nemmeno autentici musulmani. Anzi, va anche sottolineato come nella vita di ogni ebreo e di ogni musulmano, a differenza di quanto accade nella vita di molti cristiani, la permanenza della preghiera e del sacro nella quotidianità è un enorme valore, che la civiltà occidentale farebbe bene a riconoscere e tornare a praticare. Come cristiani, come cattolici, abbiamo tanto da imparare dai credenti di fede musulmana, e anche da coloro che si sono convertiti. Senza disprezzarli, per un presunto, ma inutile e antistorico, senso di superiorità.
Nella teologia cattolica esiste ormai da secoli una riflessione consolidata sulla conversione, evento centrale nella vita di fede di ogni credente. Non a caso il Dizionario biblico scrive che la conversione è un “moto di ritorno a Dio per chi se ne è allontanato col peccato. Per ottenere il perdono è necessario che l’uomo si umili davanti a Dio, riconosca la propria colpa, si allontani dal peccato e protenda la sua attività verso l’azione salvifica di Dio”. Inoltre, nel Nuovo testamento “la conversione appare nel suo duplice aspetto negativo e positivo: pentirsi, volgersi al Signore, darsi a Lui, credere. Si giunge così alla nuova creazione nella partecipazione della morte e della risurrezione del Redentore”. Nel rapporto tra ebraismo, cristianesimo e l’islam, mediato dal profeta Mohammed, e dalla redazione del Corano, con la derivazione di quest’ultimo da una delle figure centrali della Bibbia, Ismael, che lega le tre diverse tradizioni, la conversione è sostanzialmente identica. E nasce dal Libro sacro, poiché i monoteismi sono religioni del Libro. E così come pare difficile convertirsi al all’ebraismo senza aver letto la Torah, o al cristianesimo senza aver letto almeno uno dei Vangeli, pare molto difficile (soprattutto per un occidentale) convertirsi senza aver letto il Libro sacro dell’islam, il Corano. Lo scoprì, ad esempio, René Guenon, convertitosi all’islam, che in un celebre libro rese giustizia all’eredità del pensiero musulmano nella tradizione del pensiero filosofico, letterario e scientifico dell’Occidente. A questo proposito, scrive Guenon, “di fatto, l’influenza della civiltà islamica si è estesa in grandissima misura e in maniera sensibile in tutti i campi: scienza, arti, filosofia, ecc. La Spagna era a quel tempo (nel medioevo) un ambiente assai importante da questo punto di vista, e il principale centro di diffusione della civiltà islamica”. Ecco, agli odiatori di professione, ai propagandisti del nulla, queste parole andrebbero sempre ricordate.