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Storia di un combattente. Intervista a Gianni Minà

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È da poco tornato in libreria con un’autobiografia intitolata “Storia di un boxeur latino”, dopo una vita trascorsa a cercare e narrare storie, inseguendo sempre l’umanità, mai gli scoop. È stato amico di cantanti, attori, sportivi straordinari come Maradona, Pantani e Muhammad Ali, non ha mai rinnegato la stima nei confronti di Castro e sfidato per tutta la vita il conformismo, i luoghi comuni e le verità precostituite. Per questo, almeno in Italia, ha pagato un prezzo altissimo, a cominciare dall’allontanamento dalla RAI, ma la stima di lettori e spettatori non lo ha mai abbandonato. E nel mondo i suoi documentari hanno fortunatamente ricevuto l’apprezzamento e gli onori che meritavano.
Paolo Conte l’ha definita “un boxeur latino”: come nasce questa definizione e perché l’ha colpita al punto di sceglierla come titolo del suo nuovo libro?
Nasce da un regalo di Natale che mia moglie mi fece, un cd di Paolo Conte con la sua dedica, che ho preso in prestito per il mio libro. L’estate seguente, al suo concerto a Caracalla, andai a ringraziare Conte, sia per il concerto sia per la dedica, splendida. L’ho usata come titolo del libro perchè mi rispecchio molto in quella definizione.
Lei ha avuto una vita e una carriera che non è eccessivo definire avventurosa. È stato amico di molti personaggi noti e di alcune figure che sono state protagoniste a livello globale. Ha dichiarato di non aver mai cercato scoop ma solo umanità. Cos’è per lei l’umanità? Esiste ancora nel giornalismo e in questo mondo così incattivito? 
Non vorrei passare per un giornalista che ha una memoria legata a una narrazione “mitica” o quasi nostalgica. Quando parlo di umanità per me sono ricordi ben precisi di gente poverissima, ma generosa. Nel 1992, accompagnando la Menchú in un viaggio tra i campi profughi fra il Guatemala e il Messico, a una cena dove mancava l’essenziale, non c’erano nè piatti nè bicchieri, fecero a gara nel darci (a me e alla troupe) il piatto, il bicchiere migliore e il cibo che scarseggiava loro. Umanità poi per me è il popolo di Cuba che è povero, in più strozzato da un embargo anacronistico, eppure ricchissimo di cultura e di amore verso i più deboli, i bambini e gli anziani.
Lei è stato amico anche di personaggi tragici: penso a Pantani e, in una certa misura, anche a Maradona e Muhammad Ali, fiaccato dal Parkinson dopo averne subite di tutti i colori in patria per le sue idee politiche e le sue battaglie pubbliche. Cosa la attrae dei grandi “maledetti”? Perché spesso hanno scelto lei come confidente e come amico? 
I personaggi “contro” sono i più interessanti!
Riguardo a Pantani, fu il giovane ciclista a chiamarmi. Mi disse: “Minà, mi intervisti Lei, almeno so che mi farà parlare, che rispetterà quello che dirò”.
Il suo libro è dedicato a “Lucho”, Luis Sepúlveda, che aveva firmato la prefazione al suo “Politicamente scorretto”. Ci racconti il suo Sepúlveda? Com’è nata la vostra amicizia? 
L’ho scritto nel libro. Lo chiamai per intervistarlo al programma tv “Storie”. Mi colpì la sua epopea di guerrigliero e intellettuale. In America Latina, infatti, gli scrittori sono persone al servizio della società, impegnate, coerenti. Non capiva perchè non riuscissi a lavorare in Rai, nonostante la mia esperienza.
Un altro straordinario scrittore di cui lei è stato amico è García Márquez. Perché all’inizio la considerava un rompiballe? Come ha fatto a conquistarsi la sua fiducia? In cosa era simile a Sepúlveda e cosa invece li distingueva? 
Gabo lo conobbi in Messico, ma lo frequentai molto a Cuba. Ogni anno, infatti, andava a dirigere un corso di scrittura creativa alla Scuola di cinema di san Antonio de los  Baños, a pochi chilometri dalla capitale, che aveva fondato nel 1986 insieme a Fernando Birri, Julio García Espinosa e “Titon” Gutierrez Alea. Di solito, per avere il polso dell’Isola, andavo anche quattro volte l’anno, spesso al Festival del cinema latinoamericano che si teneva e si tiene tutt’ora all’Avana. Il Festival era collegato alla Scuola di Cinema dove registi da tutto il mondo davano lezioni. In uno di quegli anni vidi anche Francis Ford Coppola. Io stavo spesso lì, a volte con una troupe. Lì ho girato una sequenza magnifica dei quattro che mi raccontavano la storia della scuola, intitolata a Cesare Zavattini, che con il neorealismo italiano rappresentavano un importante punto cardinale. Questa sequenza che avevo perduto nel mio magazzino, la ritrovai e la misi nel documentario di quattro ore “Cuba nell’epoca di Obama”.
L’intervista con Fidel Castro è stata una delle sue pietre miliari. Come nacque? Perché in Italia le ha creato così tanti problemi mentre nel mondo le è fruttata un enorme successo? 
Puntavo a Castro come i duemila giornalisti che facevano la fila con me ogni anno. Avevo poche speranze, ma intanto mi preparai con Saverio Tutino, un grande giornalista, esperto di Cuba. Mi fece lavorare su cento domande. Mi disse: “Non ce la farai, ma se ce la fai, non puoi prepararti un compitino. Lì starai di fronte a un mito della storia”. All’estero, la mia intervista di sedici ore è in tutte le università, perchè la trattano per quello che è, un reperto storico. In Italia, invece, dopo quello scoop, per una strana regola transitiva, mi hanno considerato o “castrista” o “non governabile”…
Ci racconti, infine, l’episodio dei Beatles infilati nella sua Seicento. Come nacque quell’incontro? Come si sviluppò? Lei, all’epoca, aveva ventisette anni: perché oggi per i giovani è così difficile affermarsi mentre per la sua generazione, al netto dei sacrifici, degli sforzi e degli ostacoli da superare, non pochi neanche allora, tutto o quasi sembrava possibile?
L’incontro l’ho già raccontato bene nel libro. Riguardo ai giovani di oggi, posso dire che è una generazione di eroi, perché hanno rubato loro anche il futuro. Sopravvivere così, anzi il solo vivere, è un atto eroico di per sé. Tutte le generazioni però, alla fine, trovano una loro strada. I ragazzi di oggi penso l’abbiano già trovata con la difesa del pianeta e con la ricerca di una vita ecosostenibile.

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