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Se affollare le stazioni non è dovuto al Coronavirus

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di Antonio Sanguinetti. Sociologo, esperto di migrazioni internazionali. Collabora con l’Università di Roma Tre e l’istituto di ricerca Irpss del Cnr

Nei giorni dell’emergenza Coronavirus si è tornati a scrivere di migrazione dei meridionali. Questa volta, però, ad averla riportata alla luce è stato il movimento in direzione opposta: dal Nord verso il Sud. Il 7 marzo, poche ore dopo l’annuncio del premier Conte sulla costituzione delle “zone rosse” in Lombardia e altre 14 province, in centinaia hanno affollato la stazione di Milano alla disperata ricerca di un treno verso le città di origine e residenza.

Le immagini riprese con i cellulari mostravano delle persone che, trascinando i propri trolley, si affrettavano a raggiungere il binario di partenza. Il comportamento è stato immediatamente stigmatizzato da tutti: ciascuno con il tono che gli è proprio, da quello preoccupato a quello folcloristico del presidente della Regione Campania. Tuttavia, i giornalisti hanno indagato superficialmente sui motivi alla base di un comportamento giudicato unanimemente irresponsabile. Gli articoli più che altro hanno indugiato nel racconto di studenti presi dal panico di rimanere soli per un tempo indefinito, distanti centinaia di chilometri dai propri cari e senza una rete familiare su cui fare affidamento. Ma gli universitari fuori sede sono soltanto una parte, significativa, insufficiente a rappresentare tutta la popolazione migrante proveniente dal Sud.

Secondo i dati Istat sul trasferimento di residenza dal 2002 al 2018 sono emigrati verso il Centro-Nord quasi 2 milioni di persone e nel solo 2018 sono stati oltre 117mila. Un numero della rivista Sociologia del Lavoro (121/2011) evidenzia i nuovi aspetti della migrazione verso le regioni settentrionali. La recente migrazione, infatti, presenta come carattere prevalente la molteplicità di impieghi. Non si tratta più esclusivamente di operai, come negli anni del boom economico, ma si va dalla intermediazione monetaria e finanziaria fino all’industria e alla ristorazione. Probabilmente l’unico tratto che accomuna una buona parte di questa nuova emigrazione è la precarietà lavorativa. Non è difficile immaginare che tra la folla alla stazione di Milano molti erano precari impegnati nei settori che risentiranno maggiormente della attuale crisi, come le attività dell’indotto turistico o il settore della gastronomia. Inoltre, alcuni autori hanno evidenziato come dalla fine degli anni ‘90 al primo decennio del nuovo secolo, si è consolidato il numero di pendolari a lungo raggio. Si tratta di lavoratori residenti al Sud che prestano la loro attività nelle regioni non confinanti. In particolare queste modalità di impiego sono collocate nella lunga catena di appalti e sub-appalti, per cui la distribuzione del lavoro dall’azienda titolare si snoda fino a comprendere una molteplicità di imprese più piccole. Chi svolge questo tipo di lavori si intrattiene nelle regioni del Nord per un tempo limitato, che può essere qualche mese all’anno o solo dal lunedì al venerdì.

La pendolarità del lavoro tra Nord e Sud è incrementata anche dopo le stabilizzazioni dei docenti avvenuta a seguito della riforma della Buona scuola, tramite la quale gli insegnanti sono stati assegnati a istituti scolastici molto lontani dalla propria residenza. Per chi è entrato di ruolo, si trattava di un’opzione grosso modo obbligata, considerando che se non avessero accettato la loro posizione sarebbe decaduta.

Come mostra il rapporto 2017 a cura di Michele Colucci e Stefano Gallo sulle migrazioni interne in Italia In cattedra con la valigia. Gli insegnanti tra stabilizzazione e mobilità (Donzelli, 2017), il personale che rientrava nelle assunzioni spesso aveva alle spalle una lunga esperienza di precarietà nella scuola, per cui la loro età media risultava abbastanza elevata e per lo più si trattava di persone con famiglia radicata nei luoghi di origine. Ma così volle l’algoritmo del Ministero e tanti si trasferirono temporaneamente al Nord, in attesa di un ulteriore trasferimento o persino della pensione.
Non è un caso, pertanto che molte ricerche sulle recenti migrazioni interne abbiano come terreno di studio i treni notturni, le stazioni dei pullman o le sale di attesa dei voli low cost, ossia i luoghi abituali di aggregazione spontanea del lavoro mobile. Tutto ciò ben prima che i decreti Conte sul lockdown gli puntassero i riflettori. Il dato davvero preoccupante è che siano stati proprio i rappresentanti delle istituzioni a non accorgersi delle condizioni di vita dei lavoratori delle proprie regioni.

Finora il Coronavirus non ha avuto un contagio diffuso al Sud. Per fortuna i casi sono limitati e le regole sull’isolamento stanno riducendo il rischio della moltiplicazione degli infetti. La sorte è stata particolarmente clemente con i meridionali. Se fosse andata diversamente l’impatto sul sistema sanitario sarebbe stato tremendo. D’altronde non è un segreto, gli stessi presidenti delle regioni più volte lo hanno ribadito: la sanità è allo stremo.
Dal 2010 tutte le regioni meridionali sono sotto stretta osservanza del “Piano di rientro”, ciò vuol dire che, più delle altre, hanno dovuto ridurre la spesa sanitaria. Per attuare i tagli molte delle strutture sanitarie regionali sono state commissariate e il ruolo di commissario è stato affidato al Governatore. Il caso più estremo spetta alla Calabria: nel 2010 inizia la fase commissariale, dal 2015 il commissario ad acta è un esterno, nel 2019 vengono commissariati anche i direttori generali dell’Asp e i manager delle Aziende Ospedaliere. Nonostante la gestione straordinaria, il debito è aumentato e i Livelli essenziali di assistenza (Lea) sono peggiorati drasticamente. I “Piani di rientro” imposti alle regioni meridionali (ma non solo, poiché hanno interessato anche Liguria, Piemonte e Lazio) hanno comportato un taglio consistente della spesa soprattutto per quanto riguarda due aspetti: la riduzione del personale medico sanitario, con il blocco del turn-over, e la chiusura degli ospedali più piccoli, con il ri-ordino della rete ospedaliera. Il risultato è stato il deterioramento di un sistema sanitario già deficitario, il quale attualmente non riesce a fronteggiare nemmeno l’ordinario. Infatti sono in molti coloro che preferiscono curarsi fuori regione.
Tornando alla recente attualità, in un articolo del Corriere della Sera su “l’esodo da Milano”, veniva raccolta la testimonianza di un signore campano appena dimesso dall’ospedale che si accingeva a rientrare a casa. Anche gli emigrati sanitari, dunque, sono stati parte della fuga dalle regioni del Nord.

La Fondazione Gimbe ha recentemente pubblicato un rapporto sulla mobilità sanitaria interregionale. I dati mostrano come il ricorso alle cure sanitarie in una regione differente dalla propria sia un comportamento diffuso su tutto il territorio nazionale. Tuttavia solo le regioni del Sud hanno accumulato un debito enorme, questo per due ragioni: sono proporzionalmente di più i pazienti che scelgono di curarsi fuori e il movimento è solo unilaterale, ossia quasi nessuno dal Nord decide di curarsi negli ospedali del Sud. I debiti accumulati sono delle vere e proprie voragini: nel solo 2017 la Campania ha accumulato un passivo di 323 milioni, la Calabria di 278 milioni. Mentre, nello stesso arco di tempo la Lombardia ha un attivo di oltre 800 milioni di euro e l’Emilia Romagna di 300 milioni.

Vista dal Sud l’emergenza Coronavirus ha esasperato alcuni problemi già noti, connessi all’emigrazione e al sistema sanitario in rovina. La folle “caccia all’untore” e la “fuga dal Nord” non hanno fatto altro che mettere a rischio la salute sia delle persone in viaggio sia dei residenti. I presidenti delle regioni e i sindaci, senza mostrare né solidarietà né vicinanza, non hanno provato in alcun modo a gestire ordinatamente i ritorni. Troppo protesi all’esercizio della propria autorità, non hanno visto camerieri, insegnanti, operai, manovali, ma untori da umiliare per incrementare la loro presenza in televisione o i click su internet.

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