Intervista all’ingegnere che rimase ostaggio dei militanti islamisti per 243 giorni: «Anche io fui molto criticato. Una grande gioia saperla libera»
Gianluca Salviato, lei è stato rapito nel 2014 in Libia. Che cos’ha provato quando è stata liberata Silvia Romano?
«Mi sono commosso. Ogni volta che sento che qualcuno viene liberato, provo sentimenti e sensazioni indescrivibili. È come la nascita di un bambino. Io e mia moglie abbiamo sempre pregato per Silvia».
Gianluca Salviato fu rapito sei anni fa, il 22 marzo 2014. Veneto, ingegnere, si trovava a Tobruk, in Libia, dove lavorava come tecnico per la ditta Ravanelli. Rimase ostaggio dei militanti islamisti per 243 giorni. Sa cosa vuol dire la prigionia, e la paura.
Le polemiche, gli insulti e le critiche a Silvia arrivano in un momento delicato, dopo un anno e mezzo di prigionia. Come cambia, dopo, la vita di una persona?
«Credo che sia esplosa troppa cattiveria nei confronti di Silvia. Viene vista come una ragazza che è andata a fare una vacanza in Africa. Il rapimento è un’esperienza talmente forte, profonda e sconvolgente che ti cambia la vita. Cambia la tua scaletta delle priorità, il modo giornaliero di affrontare la vita. Fai cose che prima magari, ti mettevano in crisi. Sono tornato a casa dimagrito di 10 kg. Mi hanno picchiato e mi hanno fatto pressioni psicologiche. Io per esempio, avevo due carcerieri: c’era quello che faceva il poliziotto cattivo e quello che faceva il poliziotto buono. Non so cosa sia successo a Silvia, ma immaginiamoci lei, da sola, bianca, occidentale, in un villaggio in Somalia, 18 mesi senza sapere se i tuoi genitori stanno bene o stanno male. Il primo momento dopo la liberazione, è stato un momento di stordimento. Ero incredulo. Ti devi riadattare, devi rientrare nella tua famiglia. È stata dura. I primi giorni andavo a dormire sul letto ma poi finivo sul tappeto, come quando ero stato rapito».
Anche lei ha mai ricevuto critiche e insulti dopo sua liberazione nel 2014?
«Ho ricevuto tante critiche. Me le leggeva mia moglie ma mi diceva di lasciar perdere. Mi hanno detto: “Ma dove vai a lavorare all’estero che hai il diabete e sei ammalato!”. Quando hanno visto la foto in copertina del mio libro, mi hanno detto di tutto. Indossavo un fazzoletto a quadratini che è più grande della Kefiah e che arrotoli intorno alla testa per coprirti il viso quando vai nel deserto. Leggendo com’erano scritti i commenti però, ho notato che mancava cultura. Mancava anche il saper mettere una parola dietro l’altra correttamente. Sono spesso persone che comunque non hanno visto nulla, non hanno magari mai preso un aereo o mai letto un libro. Non viaggiano neanche leggendo un libro!».
In Libia, durante quegli otto mesi di prigionia, lei ha cominciato a pregare per paura. Ha ritrovato la sua fede. Tra i commenti più feroci rivolti a Silvia, ci sono quelli relativi alla sua conversione. Lei cosa ne pensa?
«Magari leggendo il Corano come ha detto, ha trovato qualche appiglio, qualcosa che l’ha aiutata a sopportare la situazione. Può essere che l’abbiano manipolata, ma io mi sono attaccato alla mia fede per sopravvivere. Immagina di trovarti in una parete di una montagna liscia, senza nessun appiglio. Ti attacchi alla tua famiglia e alla tua fede. Ti permette di resistere. In quei momenti mi sono messo nelle mani del Signore. Ho detto: ‘guidami tu, io non so cosa fare’. Quando ho iniziato a pregare, non mi ricordavo nemmeno il Padre Nostro. Pregavo e mi dava sollievo. Mi ha portato a trasformare la paura in coraggio e ad accettare che potevo morire da un momento all’altro. I rapitori mi avevano chiesto se ero musulmano e ho dovuto decidere cosa dire. Ho detto: “Ssono cristiano”. Mi hanno poi chiesto se pregavo. Ho detto di sì, però pregavo durante gli orari in cui pregavano loro. La mia fede è poi rimasta. In quelle situazioni noi cambiamo, ci adattiamo. Facciamo di tutto per sopravvivere».
Si parla tanto del pagamento di un riscatto da parte del governo italiano. Lei è stato liberato nel 2014. È a conoscenza del pagamento di un riscatto per la sua liberazione?
«L’ho chiesto e mi è stato detto: ”Sii felice di essere libero e di essere tornato a casa. Non si lascia indietro nessuno. Si porta a casa qualunque cittadino italiano. I nostri servizi segreti e la Farnesina sono stati bravissimi. Hai visto quelli che sono scesi dall’aereo incappucciati e armati? Quelle persone hanno rischiato la propria vita e bisognerebbe ringraziarli”. Quando ero nelle mani degli islamisti, mia moglie aveva un referente solo per lei e poteva chiamarlo anche venti volte al giorno. Lei andava alla Farnesina una volta alla settimana ed era informata di tutto. C’è poi chi dice grazie e chi non lo dice. Silvia lo ha detto, a tutti».
Silvia avrebbe detto allo zio di voler tornare in Africa e i leoni da tastiera si sono scatenati ancora di più, affermando che ‘Silvia allora poteva starsene direttamente là’. Dopo il suo rapimento, lei è rimasto in Italia?
«Sono tornato a casa. Dopo un po’ ho cercato lavoro in Italia, ma mi è stato difficile. Appena scoprivano che ero io, non mi chiamavano più o mi dicevano che non avevano più bisogno. Credo che loro pensassero che non fossi più a posto con la testa dopo un’esperienza simile. Allora sono ripartito e sono andato in Qatar e poi in Arabia Saudita. Sono andato via perché è la mia vita. È il mio lavoro e qui in Italia è difficile trovarlo, specialmente per una persona che ha capacità come le mie. Sono stato anche criticato. I miei amici mi hanno detto: “Perché vai di nuovo via? Cosa vai a rischiare?”. Logicamente se Silvia lo vorrà, sarà libera e potrà tornare in Africa. Magari ci andrà con un’esperienza in più sulle spalle e con sicurezza, perché bisogna dire che tante Ong non danno la sicurezza che dovrebbero dare, e anche molte aziende».
Se potesse parlare a Silvia, cosa le direbbe?
«Le direi che abbiamo provato una grande gioia quando è stata liberata, che sia felice, che si goda la sua famiglia e le sue cose. Riguardo alle cattiverie, che faccia come ho fatto io: “non ti curàr di lór, ma guarda e passa”».