Non c’è prospettiva d’uscita dalla crisi del Covid-19 se non si affrontano diseguaglianze e ingiustizia sociale. Siamo d’accordo, ma vogliamo guardare a quest’affermazione dal punto di vista della comunità rom e sinta, partendo da due considerazioni.
La prima. La Banca mondiale dimostra che la disparità di opportunità per Rom e Sinti, effetto della lunga emarginazione sociale ed economica, provoca concrete perdite economiche: ad esempio in Bulgaria, le perdite annue di produttività sono valutate in 526 milioni di euro e in Romania in 887 milioni; le perdite fiscali annuali vanno dai 202 milioni di euro in Romania ai 370 in Bulgaria. Il riferimento è a Paesi con un’alta percentuale di popolazione romanì, ma questo effetto ha ricadute, in proporzione, in ogni Stato, compresa l’Italia. Ma finora i fondi strutturali dell’UE destinati a Rom e Sinti non hanno avuto prodotto concreti sull’esclusione sociale ed economica, d’altro canto, l’estrema destra e i governi populisti hanno capitalizzato la rabbia della lunga crisi iniziata nel 2008 con feroci campagne antizigane, provocando in questo modo ulteriori perdite economiche.
La seconda. La dinamica demografica e del mercato del lavoro in Europa è preoccupante. Entro il 2025, la domanda di lavoro delle imprese comincerà a superare l’offerta in Paesi come Repubblica Ceca, Bulgaria, Germania, Ungheria e Slovacchia (Rapporto dell’Istituto di Vienna per gli studi economici internazionali). Ed entro il 2050 la popolazione in età lavorativa diminuirà di circa il 10% in tutta l’Unione europea, mentre nell’Europa centrale e orientale del 30% (dati Eurostat).
Quindi l’esclusione di Rom e Sinti produce un danno economico nell’immediato e tanto più nella prospettiva. Superare le diseguaglianze per ripartire si può considerando l’impatto della crisi da Corona virus per la minoranza rom e sinta e a due condizioni.
Intanto l’impatto più drammatico riguarda le condizioni economiche. Lavoratori e imprenditori rom e sinti, molti dei quali attivi nell’economia informale, in posti di lavoro scarsamente qualificati e a basso salario, ma anche inseriti in settori produttivi significativi come lo spettacolo viaggiante, l’arte e la cultura, non sono inclusi nei piani di ripresa economica. Se guardiamo all’Italia, lo Stato fornisce, in generale, assistenza sociale ma non provvede a coloro che si sono guadagnati da vivere nell’economia informale e scarso è il sostegno per la sopravvivenza ad esempio di settori con una lunga tradizione e una funzione sociale importante come lo spettacolo viaggiante.
Poi le due condizioni.
1. Rompere lo schema assistenzialismo-emarginazione, con il quale Stato, Terzo settore e associazionismo vario hanno affrontato sinora la scomoda presenza di Rom e Sinti: qualche decennio di pura assistenza – oltre a portare troppo spesso più vantaggi agli assistenti che agli assistiti, legalmente e anche illegalmente – ha significato accettare la separazione sociale, aumentare l’emarginazione e peggiorare la condizione soggettiva delle comunità. E in questo le campagne d’odio di politica e media hanno attinto generosamente.
2. Far esplodere la contraddizione tra grande potenziale e il suo abbandono rappresentato dal dato drammatico della frequenza scolastica. Il numero di bambini rom e sinti in condizioni di segregazione e di istruzione scadente in soli cinque anni, dal 2011 al 2016 è aumentato della metà, dal 10 al 15%. Inoltre le misure di educazione a distanza già ora durante l’emergenza hanno escluso la maggior parte dei bambini in età scolare e nella prospettiva rischiano di escludere dall’istruzione più della metà dei bambini rom e sinti aumentando il tasso di abbandono scolastico.
Da questo vogliamo partire: dai nostri giovani. Nell’UE la popolazione romanì è stimata intorno ai sei milioni, la maggior parte dei quali situata nei Paesi dell’Europa centro-orientale, in Spagna, Francia e Germania. Si tratta di una popolazione più o meno pari a quella della Bulgaria, il Paese più povero dell’UE, e poco superiore a quella dei Paesi più ricchi, come la Danimarca o la Finlandia. In secondo luogo, l’importanza della popolazione romanì anche in termini di gioventù è significativa. Secondo una ricerca condotta in Ungheria nel 2003, il numero di studenti romanì di età pari o inferiore a 15 anni è il doppio degli studenti non romanì di età pari o inferiore a 15 anni. Nel 2001, le stime in Spagna mostravano che il 40-50% dei Rom spagnoli (i Khalè) ha meno di 16 anni. In Italia, pur mancando i dati, si può tranquillamente stimare che più della metà della minoranza rom e sinta sia di età inferiore ai 16 anni. Pertanto, il popolo romanì costituisce il gruppo etnico europeo più giovane.
È questa la leva per scardinare lo schema assistenzialismo-emarginazione e superare gli effetti negativi della diseguaglianza sociale ed economica. Gli investimenti nell’istruzione di Rom e Sinti saranno fondamentali per le prospettive economiche a lungo termine anche per l’UE e i suoi Paesi. Ora chi aveva posti di lavoro e attività imprenditoriali ha bisogno di un sostegno per tornare al lavoro, altri hanno bisogno di garanzie di credito per la nuova imprenditorialità, i giovani di formazione professionale per colmare le esigenze del mercato del lavoro. La Commissione europea, le istituzioni finanziarie dell’UE, integrino le misure dei governi nazionali con investimenti innovativi nella popolazione romanì, che è giovane, vivace, multilingue, mobile e già – checché se ne dica – intraprendente ed esperta, e rappresenta un grande, vivo potenziale per se stessa e per l’Unione e per i Paesi che l’accolgono.