Avete presenti quei libri che divorate forsennatamente per sapere come va a finire? Tre Piani di Eshkol Nevo appartiene a questa categoria, ma spiazza il lettore strada facendo, perché, pur illudendolo nell’attesa di un finale che plachi la curiosità, lo soddisfa solo in parte. Delle tre microstorie proposte, infatti, soltanto l’ultima, che è anche la più complessa e avvolgente, ne possiede uno. In sostanza quella che l’autore ha creato è la tensione narrativa e quello che ha tenuto avvinti alle pagine è stato il rovello dei personaggi in parte migrato nelle regioni sensibili delle inquietudini personali.
Con una laurea in psicologia abilmente messa a frutto attraverso l’uso del lessico specifico della disciplina che scolpisce gli arabescati meandri della mente umana, Eshkol Nevo è stato un pubblicitario prima di convertirsi totalmente alla letteratura ed è giunto prepotentemente alla ribalta più con il meccanismo del passaparola che attraverso i canali ufficiali. Dei suoi libri si discetta piacevolmente con gli amici e non è raro trovare i suoi romanzi tra quelli postati sui social come letture consigliate. Ciò nulla toglie a questo raffinato protagonista di una civiltà di transizione, fortemente tentata dall’oblio storico e naturalmente spinta verso un onnicomprensivo virtuale, che riporta l’uomo e le sue mille contraddizioni al centro del proprio campo d’indagine, l’uomo con le sue relazioni “autentiche” e con il suo patrimonio storico che agisce in chiaroscuro anche quando sembra sepolto e dimenticato.
Tre piani è il penultimo romanzo (seguito a breve distanza da L’ultima intervista sempre per Neri Pozza) che contiene tre lunghi racconti che si incrociano per brevissimi istanti – giusto lo spazio di qualche riga o di qualche periodo in cui il cambio di focalizzazione consente di guardare i personaggi da altri punti di vista – come a voler contenere dentro un’unica cornice narrativa lo srotolarsi di tre vissuti completamente diversi accomunati dal luogo di residenza, una palazzina (che diviene pertanto cornice architettonica) nella zona periferica di Tel Aviv nella quale i tre protagonisti abitano in tre piani diversi.
Come in altri romanzi di Nevo, la casa, luogo di affetti o di disgregazioni, di riconoscimento sociale o di scelte radicali, acquisisce un’importanza simbolica (in costante opposizione al movimento senza meta prestabilita) che, probabilmente, risale al dramma collettivo della diaspora e alla conseguente ossessione di stabilità e di radicamento. Ciò che è stato non si disperde nell’incessante trascorrere del tempo. Ne è dimostrazione una lunga sequenza presente nel testo che narra di una adunata politica giovanile intenta all’esperimento del “sogno collettivo”, e qui torna utile ricordare l’importanza attribuita ai sogni nella cultura ebraica (quanto sogna il giovane Amir in Nostagia!) che nel Talmud li considera come “espressioni di un volere divino” che va interpretato. Viene spiegato che “ogni sogno contiene in sé, oltre agli elementi personali, anche elementi che sogniamo per tutta la società della quale facciamo parte” e si individua ovviamente nella Shoah il livello profondo comune a tutti i sogni di chi vive in quel paese, una sorta di incombente inconscio collettivo presente anche nelle generazioni che non l’hanno vissuta direttamente. Certe tragedie storiche quindi non possono non marchiare a fuoco un popolo e non influire sulle sue scelte individuali e politiche. Ancora in Nostalgia aleggia, con esiti diversi, l’assassinio di Rabin; esso si innesta nel quotidiano senza essere percepito come evidente elemento perturbante ma producendo conseguenze tangibili.
Come è stato più volte sottolineato, i tre piani del romanzo (vale la pena notare il valore simbolico dei numeri, ed in particolare del tre, nella cultura ebraica) coincidono in maniera scoperta con le tre istanze psichiche analizzate da Freud: Es, Io e SuperIo, tanto da ritrovarli esemplificati nei personaggi.
Il primo protagonista, Arnon, agisce d’istinto seguendo paure e intuizioni irrazionali ma non eludibili che lo porteranno, nell’implacabile ricerca di una colpa altrui, ad inciampare nei propri errori difficilmente riparabili; nella seconda, Hani, si è guastato il delicato meccanismo della mediazione tra istanze e dell’adattamento alla realtà tipici dell’Io e ciò le farà avvertire come impercettibile il confine tra realtà e immaginazione fino a farla sentire irrimediabilmente calamitata da una condizione di pre-follia pronta a divampare come una scintilla alimentata dal vento; la terza, Dovra, non può che essere un giudice, proiezione corrispondente e simmetrica dell’ultima istanza, il Super Io censore, e lo è in maniera così scoperta da condurla a leggere e commentare l’opera di Freud che cessa, in tal modo, di essere un’ipotesi di riferimento per divenire una dichiarata certezza. Superfluo aggiungere quanto le esperienze pregresse e le relazioni familiari incidano sulle condizioni degli attuali turbamenti dei personaggi.
La forza della narrazione non risiede comunque in quella che potrebbe apparire come una sovrastruttura non indispensabile. A conferire fascino alle storie, oltre al linguaggio sobrio, asciutto, paratattico e pertanto rapido e immediato, con il dialogo libero dal virgolettato e scandito soltanto dalla punteggiatura, è senz’altro la disposizione dei personaggi all’indagine interiore, quel grattare sulla superficie dei fatti per riportare alla luce i reperti di vecchi e insanabili dolori, quella sistematica denuncia delle proprie colpe seguita a corto raggio da arringhe difensive dalle argomentazioni solo in apparenza inoppugnabili. Le rivelazioni dilaganti dei protagonisti sono affidate all’ascolto di interlocutori cui il personaggio/narratore si rivolge direttamente, quasi a prevenirne le obiezioni o a tentare di stornarne il giudizio: un amico scrittore (che potrebbe somigliare allo stesso autore), un’amica lontana da sempre ammirata ed invidiata come modello di perfezione, il marito defunto la cui voce viene riesumata attraverso una vecchia segreteria telefonica. Ed è proprio quel “tu” narrativo di volta in volta diverso che diviene l’altro strumento efficace messo in campo da Nevo per catturare l’attenzione del lettore che, inevitabilmente, finisce per divenire lui stesso privilegiato officiante di un rito simile ad un’intima confessione. Per quanto l’azione si svolga in un rapido presente, il passato si affaccia alla soglia della coscienza per condizionare scelte ed azioni e diviene ulteriore conferma della riemersione del rimosso e del conseguente parziale fallimento di fragili meccanismi di difesa. Basta l’ingresso nella cittadella fortificata dell’Io di un qualsiasi cavallo di Troia – il breve “rapimento” della piccola Ofri, figlia di Arnon, l’arrivo del cognato di Hani, ricercato dalla polizia che chiede temporanea ospitalità, l’incontro occasionale con giovani manifestanti che scardinano le certezze borghesi di Dvora – per ridiscutere codici comportamentali e valori, per imprimere direzioni alternative a monotone consuetudini, per respirare aria pura quando sembra vicina l’asfissia del quotidiano.
E’ lecito intuire l’epilogo delle prime due storie, Nevo dissemina qualche indizio cui aggrappare le possibili ipotesi di conclusione, mentre apprendiamo con un certo sollievo nella terza storia che è possibile dare una svolta alla propria vita anche in età avanzata, proprio quando sembra non esistano strade praticabili o opportunità per riparare ai danni inferti a chi si ama incondizionatamente, in questo caso al proprio figlio, specie quando esso diventa un “fardello” dal quale, come qualsiasi altra madre, Dvora non vuole liberarsi.
Non resta che aspettare fiduciosi l’arrivo in sala di Tre piani nella trasposizione cinematografica di Nanni Moretti che questa volta non si cimenta su un suo soggetto originale.