Mai finora un’incriminazione a carico di un agente di polizia era stata formulata in tempi così rapidi. Aveva tenuto a sottolinearlo il procuratore della Contea di Hennepin, Mike Freeman, ufficializzando l’arresto dell’ex poliziotto Derek Chauvin, accusato dell’omicidio di George Floyd, il 46 enne ucciso lunedì sera a Minneapolis. Ventiquattro ore dopo, i risultati dell’autopsia del medico legale del dipartimento di Polizia affermano che “non ci sono elementi fisici che supportano una diagnosi di asfissia traumatica o di strangolamento”. L’afroamericano sarebbe morto a causa degli effetti combinati dell’essere bloccato dall’agente di polizia, delle sue patologie pregresse (coronaropatia e ipertensione) e di qualche potenziale sostanza intossicante nel suo corpo. Insomma, le accuse per il poliziotto incriminato potrebbero alleggerirsi.
La notizia ha ulteriormente infiammato le proteste che hanno causato la morte di un manifestante, un ragazzo di 19 anni a Detroit, e un poliziotto a Oakland, in California. Centinaia gli arresti, dal Minnesota al Texas, da New York a Chicago.
Il giorno prima la tensione aveva portato anche al fermo di un giornalista e di una troupe della Cnn che stavano raccontando le proteste a Minneapolis in presa diretta.
Omar Jimenez, reporter di colore di origini latinoamericane, non aveva ceduto all’imposizione degli agenti di lasciare la postazione da cui stava trasmettendo live. A un certo punto i poliziotti, incuranti che stesse trasmettendo hanno afferrato il braccio del giornalista e hanno fatto scattare le manette. Subito dopo la stessa sorte è toccata alla crew con cui stava lavorando. Il fermo sì è protratto per oltre un’ora e solo le proteste della rete televisiva di Atlanta hanno permesso a Jimenez e ai colleghi Bill Kirkos e Leonel Mendez di tornare liberi.
Poco dopo l’accaduto sono arrivate anche le scuse del governatore del Minnesota, Tim Walz, che si è assunto la responsabilità dell’episodio: “Non sarebbe mai dovuto accadere”, ha dichiarato sottolineando che si era tratto di “un fatto imperdonabile”.
Intanto Minneapolis brucia. E non solo. Una manifestazione si è animata anche davanti alla Casa Bianca dove centinaia di persone si sono radunate per chiedere giustizia per la vittima e denunciare la brutalità della polizia. I servizi di sicurezza hanno disposto il lockdown della residenza presidenziale. Gli scontri si sono protratti per tutta la notte.
L’incontenibile esplosione di rabbia di migliaia di persone, scese in strada per protestare contro il razzismo e l’uso eccessivo della forza da parte di tutori della legge, ha spinto il sindaco della capitale del Minnesota a chiedere l’intervento della Guardia nazionale.
A distanza di cinque giorni dall’uccisione di Floyd i disordini e la guerriglia urbana non sembrano destinati a placarsi.
Le proteste si sono ormai trasformate in vera e propria rivolta, degenerata in saccheggi e atti vandalici.
La situazione è decisamente fuori controllo. Al punto che William Bart, l’attorney general (procuratore generale) che negli Stati Uniti ha le funzioni di ministro della Giustizia, ha minacciato misure drastiche contro i “gruppi di radicali e agitatori che stanno approfittando della situazione per perseguire la loro agenda violenta”. Insomma “infiltrati” nelle proteste che si animano in varie città Usa per la morte di George Floyd. E il presidente Donal Trump non esita a gettare ulteriore benzina sul fuoco affermando che non permetterà a una folla arrabbiata di prendere il sopravvento. “Sono determinato a proteggere la democrazia e lo stato di diritto a qualunque costo” il minaccioso ultimatum dell’inquilino della Casa Bianca.