Confesso l’emozione di scrivere di un mostro sacro come Federico Fellini, per il quale nutro da sempre un’accesa inclinazione, in particolare per il primo Fellini de “Lo sceicco bianco”, geniale satira sul mondo dei fotoromanzi, dove il neoregista va ben oltre le intenzioni e lo fa con la grazia ispirata che è della giovinezza, ancora acerba, ma pura e sincera, non ancora gravata da successi e aspettative, manifestando subito la sua ricchezza creativa in un’opera che oggi è considerata un manifesto della sua poetica, un coraggioso punto e a capo della filmografia italiana del dopoguerra, un esempio di leggerezza e graffiante ironia in una commedia a sfondo psicologico, con sfumature struggenti. Un capolavoro. Un Charlie Chaplin (regista amato da Fellini) italiano, che suscita un riso velato di tristezze. Già in questa prima opera il giovane regista romagnolo accende i riflettori sulla magica finzione dello spettacolo, fabbrica di sogni e illusioni, con mano esperta e decisa, aprendo un varco innovatore nel linguaggio cinematografico. Con lui nasce infatti una nuova concezione di fare cinema. Inizialmente trascurato, successivamente rivalutato, il film è una scatola magica che racchiude in sintesi il meraviglioso mondo felliniano, dove la finzione esplicitata diventa corpo e sostanza per materializzarsi in una gigantesca operazione di liberazione dell’inconscio, dove l’onirico si impasta con il reale, creando effetti di straordinario e raffinato voyeurismo, condito da un sorriso satireggiante. Quando il film di Fellini uscì nel ‘52, prezioso per l’apporto storicistico alla ricostruzione della sua personalità artistica, ma anche per il suo valore intrinseco, fu incompreso e snobbato dalla critica, ad eccezione dei lungimiranti Solmi e Kezich. Eppure appaiono immediatamente evidenti la freschezza e l’originalità di questi primi passi d’autore in un universo che presto lo consacrerà icona della settima arte. Il film si è rivelato contenitore in nuce di tutti i temi a lui cari e del suo stile inconfondibile dispiegati magnificamente nelle opere della maturità, destinate a portare interamente il peso e la forza di un ricchissimo visionarismo, intriso di psicologismi e malinconie ancestrali. In questa prospettiva “Lo sceicco bianco” è dunque una preziosa teca ante litteram della visione artistica e umana del suo autore. Il film nasce dopo l’interessante e sfortunato “Luci del varietà” dove Fellini è coregista con Lattuada e dopo la viceregia in “Persiane chiuse” di Luigi Comencini, di cui firma la sceneggiatura con Tullio Pinelli. Il produttore Rovere è talmente colpito da Federico da proporgli di scrivere e dirigere una satira dei fotoromanzi, appunto “Lo sceicco bianco”. Fellini firma così la sceneggiatura con Tullio Pinelli e in collaborazione con Ennio Flaiano, da un’idea di Michelangelo Antonioni che aveva girato un documentario sui fotoromanzi dal titolo “L’amorosa menzogna”. Con emozione e apprensione Federico si accinge alla sua prima regia.
Il film presenta una struttura classica in tre atti, raramente ripresa dal regista nelle sue opere successive. Narra la storia di due sposini in viaggio di nozze a Roma. All’arrivo nella città eterna Wanda (la deliziosa Brunella Bovo) candidamente invaghita di un eroe dei fotoromanzi, lo Sceicco Bianco (un Alberto Sordi agli esordi magnificamente cialtrone) sparisce dall’albergo, sulle tracce del suo beniamino che però si rivelerà ben presto uno squallido e mediocre Dongiovanni, abbandonando e lasciando nella desolazione e nei guai Ivan (l’esilarante e spiritato Leopoldo Trieste), in attesa di essere ricevuto con la moglie in udienza dal Papa, per intercessione dei parenti romani, ai quali l’irascibile e ambizioso nipote si affanna a nascondere la sparizione, adducendo scuse e pretesti, più preoccupato delle apparenze e dell’onorabilità della famiglia che della sorte della sua sposa. Nella scena conclusiva Wanda, finalmente ritornata dopo un giorno e una notte, stringendosi allo sposo, mentre vanno all’udienza papale, lo guarderà con occhi incantati dicendogli che è lui il suo vero Sceicco bianco. Il lieto fine non salva da una punta di amarezza per la perdita delle illusioni, mentre la realtà salvifica si sovrappone ai sogni, rivestendoli di una luce magicamente vera in un inno all’amore e al sogno, immediatamente negati dagli occhi stralunati dello sposo. Sotto l’apparente leggerezza sbuca l’inquietudine della realtà che solo il sogno può placare, anche se per poco.
Forte di innovazioni stilistiche, dal montaggio incrociato sulla giornata in parallelo dei due sposini, al gioco di primi piani dello sguardo incantato della sposina svanita nel nulla in contrasto con gli occhi sbarrati dello sposo alla disperata ricerca della mogliettina, o al concerto di mugolii dei due sposini piangenti ricongiunti, il film scorre sul filo di una suspence che rivela le doti straordinarie di narratore-incantatore di Fellini, stratega delle immagini e delle emozioni, orchestrate in un prezioso bianco e nero dove Roma è intravista, filtrata dallo sguardo di un provinciale sognatore e talentuoso, disegnatore di fumetti giunto a Roma in cerca di affermazione, finito per caso dietro una cinepresa libera e spregiudicata. Siamo di fronte a un neorealismo che si tinge di comicità, segnando la fine del neorealismo classico. Un genere nuovo, illustre antesignano della commedia all’italiana. L’opera si muove agilmente tra fantasie e realtà, illusioni, inganni. Un piacere per gli occhi e la mente. “La vera vita è quella del sogno” dirà, smorfiando “La vida es sueno” di Calderon de la Barca la smaliziata direttrice del fotoromanzo a Wanda dagli occhi ingenui, gli occhi dei sognatori di provincia, sui quali Fellini si sofferma e inevitabilmente si identifica, senza trascurarne gli aspetti satirici che danno forza e mordente al suo stile inconfondibile. L’ambiguità dei toni del film che lasciò perplessi i critici e Venezia è invece la cifra vincente di un artista che dispiegherà superbamente le sue ali nel firmamento del cinema d’autore. Il fascino ineffabile di questo film si nutre anche del nuovo e originale approccio con la macchina da presa, di introspezioni in punta di obiettivo, irrorate da vere e proprie indagini psicologiche dei personaggi, configurate in un’atmosfera dove coabitano la realtà di Roma, che stava esplodendo in tutta la sua bellezza, qui appena sfiorata per convergere nel finale a S. Pietro, accanto alle location “esotiche” di Fregene, set del fatuo mondo del fotoromanzo “Lo Sceicco bianco”, svelato nei suoi squallidi retroscena da un gigante della satira, restio a irreggimentarsi, creativo in libertà.
Disseminato di inquadrature indimenticabili, dal belloccio e agghindato sceicco sull’altalena o mentre sguaina la scimitarra davanti agli occhi estatici di Wanda, alle atmosfere malinconiche delle notti romane con la Cabiria di Giulietta Masina, la prostituta incontrata da Ivan nelle sue disperate peregrinazioni, alle immagini circensi, agli scorci di ambienti anonimi assurti a fondali di una storia sul filo del paradosso, alle deliziose musiche ilari e struggenti di Nino Rota (inizio di un felice connubio artistico), il film scorre su un binario, felicemente alla scoperta di una città che è sogno di pietra e fucina di sogni, scoperchiando a latere il pentolone del mondo dello spettacolo con le sue ombre e i suoi fantasmi. Siamo davanti all’omaggio di un uomo sedotto da una città e dal mondo del cinema, che saranno a sua volta da lui sedotti e mai più abbandonati. Un Fellini sincero, autenticamente finto, come mai più forse, dopo. Woody Allen ha reso omaggio alla città eterna e al grande regista dello Sceicco bianco con una citazione esplicita del film, parafrasandone la vicenda in uno dei quattro episodi del discusso “The Rome wit love” che ha diviso la critica italiana. Sulla stessa linea dello Sceicco, Allen aveva già diretto “La rosa purpurea del Cairo” nel 1985, dove affrontava l’intreccio tra la piatta realtà e l’affascinante illusione del cinema, con l’irresistibile sens of humour che lo contraddistingue. Il fil rouge dell’ironia che unisce i due registi, grandi intrattenitori, li colloca chiaramente su un empatico piano di condivisione, al di là delle inevitabili differenze. Nato in un dopoguerra denso di cambiamenti ed entusiasmi ricostruttivi, forte di un mondo illusorio così magistralmente rappresentato, “Lo sceicco bianco” è entrato nell’immaginario filmico con il sorriso smagliante di Sordi agghindato col suo bianco turbante e lo sguardo ammaliatore davanti agli occhi sgranati della fans Wanda, simbolo dell’incantamento della finzione, più vera del vero secondo Pirandello, epicentro di una straordinaria produzione artistica che consegnerà Federico Fellini all’immortalità.
LO SCEICCO BIANCO
Film
Anno:1952
Regia:Federico Fellini
Attori:Alberto Sordi, Brunella Bovo, Leopoldo Trieste, Giulietta Masina, Lilia Landi, Ernesto Almirante, Fanny Marchiò, Gina Mascetti, Enzo Maggio, Giorgio Salvioni, Ettore Maria Margadonna, Rino Leandri, Carlo Mazzoni, Roberto Onorati, Giulio Moreschi, Anna Primula, Jole Silvani, Elettra Zago, Gino Anglani, Antonio Acqua, Lalla Ambraziejus, Piero Antonucci, Ugo Attanasio, Arnaldo Piacenti, Mimo Billi, Silvia De Vietri, Armando Libianchi, Guglielmo Leoncini
Paese:Italia
Durata:86 min
Distribuzione:P.D.C. – DOMOVIDEO, MONDADORI VIDEO, MULTIGRAM
Sceneggiatura:Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano
Fotografia:Arturo Gallea
Montaggio:Rolando Benedetti
Musiche:Nino Rota
Produzione:LUIGI ROVERE PER P.D.C.