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L’antidemocrazia regna sovrana a Hong Kong 

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Lo sapevamo, lo abbiamo scritto e continueremo a scriverlo: la pandemia, oltre a essere una tragedia per l’umanità, è al tempo stesso una ghiotta occasione per tutti gli autocrati del pianeta. Sta accadendo in Europa, a cominciare dall’Ungheria di Orbán, sta accadendo in Brasile, sta accadendo in Africa e ora è la volta di Hong Kong, dove il pugno di ferro di Pechino si fa sentire sempre più forte.
Lo smantellamento sostanziale del concetto “un Paese, due sistemi”, infatti, è l’ultimo tassello di una deriva in atto già da anni, e non c’entra nulla la tutela della salute pubblica bensì il desiderio ardente di reprimere il dissenso e condannare a pene severissime chiunque osi manifestare il proprio disappunto nei confronti di una progressiva perdita di diritti e libertà.

Cio che sta accadendo in quel vasto lembo d’Oriente avrà ricadute importanti anche sul resto del pianeta. Come detto, potrebbe persino determinare le elezioni americane, in quanto mette in gioco il tema cruciale del ruolo dell’America nel mondo: continuare a essere gendarmi o abbracciare l’isolazionismo trumpista? Se ci pensate, è il dibattito in corso da quasi due secoli fra democratici e repubblicani: la distinzione tra Jackson e Wilson, la differenza fra il “destino manifesto” e l’interventismo che ha mutato le sorti di due conflitti mondiali e favorito la nascita delle Nazioni Unite.
Trump è un paleocon, l’esatto opposto di Reagan, un Harding del Ventunesimo secolo. Biden è un democratico di stampo obamiano: un po’ Carter, un po’ Clinton, comunque vicino alle istanze di quanti ritengono che gli Stati Uniti debbano presidiare i valori democratici globali. Al netto della retorica, dell’ipocrisia e delle innumerevoli controversie che tale dottrina comporta, va detto che l’isolazionismo trumpiano è anche peggio.

Non c’è dubbio che la leadership di Xi Jinping si sia appannata. Non esiste democrazia in Cina, ma l’affanno è palese: la crisi del Coronavirus è stata gestita in ritardo e ha messo in discussione l’ascesa di un paese che, fino a quel momento, sembrava inarrestabile. Xi Jinping, pertanto, sta alzando i toni per paura, perché sa di non avere più la nazione in pugno come prima del Covid-19, perché le proteste, per quanto serpeggianti, nascoste, timide e represse, sono comunque presenti e il governo lo sa bene. Il presunto erede di Mao sta mostrando i muscoli perché difficilmente potrà continuare a presentarsi come il nuovo “uomo di Davos” in un mondo che, di fatto, sta dibattendo pressoché ovunque su come lasciarsi alle spalle il liberismo selvaggio che ha sfregiato le nostre società, indebolendole in maniera drammatica.
In definitiva, sta consumando la sua vendetta su un popolo che non ha mai sopportato, verso cui nutre un sentimento di profonda avversione e contro il quale ha schierato un capo esecutivo, la signora Carrie Lam, fedelissima di Pechino e assai invisa a coloro che devono subirne da vicino l’assoluta mancanza di autonomia, la cui azione rischia di rivelarsi controproducente.
Spaventano le norme liberticide del governo del Dragone ma, per la prima volta, danno anche l’impressione di essere figlie non solo di una profonda protervia quanto, più che mai, di un diffuso e comprensibile timore. L’Occidente, a cominciare dall’Unione Europea, avrebbe una grande occasione per far sentire la propria voce ma dubitiamo fortemente che lo farà.
P.S. Dedico quest’articolo a Claudio Ferretti e Bruno Bernardi, due colleghi che ci mancheranno profondamente. E ad Alberto Alesina, un economista dal quale mi divideva quasi tutto ma dal quale avrei voluto continuare a dissentire ancora a lungo.

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