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La crisi nella crisi: l’informazione ai tempi del coronavirus. Il caso lombardo. 

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Le crisi fanno uscire il meglio e il peggio delle persone. Saggezza spicciola? Forse, ma sembra reggere alla prova dei fatti. In Lombardia si è registrata la peggiore incidenza di morti per coronavirus ma si sono visti commoventi prove di solidarietà. Anche il mondo dei media ha confermato questa regola: insieme a interviste compiacenti agli amministratori che avevano molto da farsi perdonare vanno segnalate esemplari prove di giornalismo d’inchiesta e di servizio. “Adesso siamo sotto una grandinata di crisi aziendali”, dice Anna Del Freo, che sta provando a gestire il patatrac del mondo dell’editoria in Lombardia, “crisi quasi tutte motivate dal crollo della pubblicità”.

Ci arriveremo, ma prima occorre un rewind per tornare ai primi giorni di marzo. Il “paziente 1”, lo sportivissimo di Codogno era già intubato da giorni, il paese del Lodigiano era già zona rossa (leggere l’esperienza di Paolo Maggioni, l’inviato di RaiNews24 il primo ad arrivare sul posto) ma i cronisti di Bergamo e Brescia giravano come trottole in quei serbatoi di virus che erano le valli iperproduttiviste vicine ai due capoluoghi. “All’inizio non capivamo le pericolosità, non ce ne rendevamo conto”, racconta Isaia Invernizzi dell’Eco di Bergamo. “Solo quando abbiamo cominciato a vedere che tutti in Val Seriana, a Nembro e Alzano hanno cominciato a indossare le mascherine abbiamo capito”. Già, ma i numeri dicevano qualcosa di diverso, non segnalavano tutte quelle morti.

Problema serissimo perché anche il giornalista più smaliziato quando vede il “bollino” di un’istituzione (Ats, Comune, Regione, eccetera) tende a fidarsi. Isaia Invernizzi ha cominciato a non fidarsi e si è fatto aiutare dai sindaci dei comuni interessati alla mattanza: “i numeri più veritieri li abbiamo scritti grazie ai sindaci” – racconta – “che davvero sono stati in prima linea, a provare a tenere assieme le loro comunità che andavano a pezzi”. Stesso scenario nel Bresciano. “Abbiamo saputo solo dopo che Orzinuovi poteva essere un’altra “Codogno”, un’altra zona rossa”, spiega Emanuele Galesi del Giornale di Brescia, “in quei giorni i conti non tornavano, tra le segnalazioni che arrivavano dai cittadini, i numeri dell’ATS e quelli, ancora diversi, della Regione Lombardia”. Emanuele Galesi lavora all’online e da quell’osservatorio ha seguito la curva dell’indignazione dei lettori: “siamo passati dai primi giorni in cui ci davano degli allarmisti al momento in cui cominciavano a chiedere di non creare panico. Nei muri di Brescia sono comparse scritte con lo slogan IN MEDIA STAT VIRUS”. Conclusioni: “i giornalisti pagano le incertezze delle istituzioni”, si rammarica Emanuele Galesi. Che però eccede in stima: i giornalisti pagano anche per le bugie e i comportamenti poco trasparenti di alcune istituzioni.

Le misure di sicurezza in redazione a detta sia di Galesi che di Invernizzi sono state adeguate: il risultato è che sia il Giornale di Brescia che l’Eco di Bergamo se la sono cavata con qualche influenza, ufficialmente nessun caso di coronavirus. E comunque adesso tutti (o quasi) al lavoro da casa. I momenti più brutti sembrano passati ma rimangono impressi: “non dimenticherò mai i sindaci che piangevano al telefono per i loro concittadini morti”, spiega Isaia Invernizzi; “una volta a casa alzavamo il volume della musica per non far sentire il suono delle ambulanze ai bambini”, racconta Emanuele Galesi.

I giornali locali hanno avuto, loro malgrado, un momento di gloria con richieste di interviste dalla CNN alla tv giapponese; e si vendevano più copie. Un bisogno di informarsi ma anche di partecipazione: pensate a una delle immagini simbolo della tragedia lombarda, le paginate di necrologi dell’Eco di Bergamo che era – spiega Isaia Invernizzi – “un modo di esserci visto che i funerali non potevano neppure svolgersi”.

Ma gli aumenti di copie vendute sono forse niente più che un fulmine: da marzo a febbraio di quest’anno 4000 copie in più per l’Eco di Bergamo, 1200 per il Giornale di Brescia (dati ADS); troppo poco per un’inversione di tendenza rispetto al calo costante di vendite, niente di fronte all’annullamento della pubblicità. “Da aprile abbiamo gestito 54 crisi aziendali, dalla testata “monoredattore” ai grandi gruppi”, spiega in una pausa dell’ennesima vertenza su Zoom Anna Del Freo, vicepresidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti. Il tono della voce è stanco e quello che dice gronda preoccupazione: “quasi tutte le aziende ci hanno chiesto di poter utilizzare la cosiddetta “cassa covid”, che dura al massimo 18 settimane, è erogata dall’Inps e come nel basket è un timeout che ferma il conteggio delle altre forme di contratti di solidarietà”. Dunque una crisi nella crisi, le difficoltà economiche del momento si sono insinuate in una fase già emergenziale. Momenti concitati, dove “si ha la sensazione di svuotare il mare con il cucchiaino”, dice ancora Anna Del Freo, “senza sapere neppure con precisione di quanti lavoratori stiamo parlando: la stima della FNSI è che in questo momento ci siano almeno 700 giornalisti in “cassa covid” e la maggior parte si concentra in Lombardia”. Prima di buttare giù il telefono per affrontare un’altra vertenza la vicepresidente dell’ALG prefigura un rischio ulteriore, che molti editori chiederanno ai giornalisti di continuare a lavorare da casa. Niente di male? Dipende: reperibilità H24, uso di strumenti di lavoro propri, polverizzazione delle relazioni – il giornalismo è anche confronto fra colleghi – e della possibilità di sindacalizzazione. Un’altra forma di distanziamento sociale, una lenta erosione dell’architettura democratica che ha permesso ai media di indagare, sfidare le bugie istituzionali, di informare. E con i disastri combinati dalle istituzioni lombarde chiunque ha capito che sono necessità vitali.


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