Redazioni chiuse: all’Ansa nelle varie regioni (la cui proprietà multi editoriale avrebbe voluto chiudere tutto anche nel ponte pasquale), il (presunto) lavoro agile da domicilio (per tutte le altre testate presenti in Liguria e ormai sotto un unico padrone automobilistico) possibile anticamera per ridimensionamenti e ristrutturazioni, un lavoro agile che ha messo colleghe e colleghi davanti ai molti difetti di questa scelta che cancella e rivoluziona il tuo vivere privato e familiare oltre al concetto (desueto?) di un giornale come prodotto culturale, ideale, collettivo. Lavoro in cui la presenza e il contatto diretto eviterebbero come hanno evitato in passato, decisioni e blitz avvilenti per la categoria. Il lavoro autonomo e i cronisti comunque costretti o travolti in ammucchiate pericolose tra reiterate pre/inaugurazioni di ponti crollati, arrivi di aiuti dagli amici (?) russi e cinesi (soprattutto cinesi), una strage nelle case di “riposo” denunciata da alcuni media con parecchi mal di pancia dell’assessorato alla sanità e del presidente della Regione Liguria, il giornalista in prestito(?) alla politica, Giovanni Toti. Il mondo on line che ha più o meno tenuto botta seppur con difficoltà.
E la politica? Confusa e molto spesso contrapposta ai media con una vocazione totalizzante delle informazioni sanitarie e sociosanitarie, in un sistema di comunicazione pubblica pesantemente condizionante. I colleghi del settore ne sono vittime, complici o coscientemente protagonisti? Lo vediamo più avanti.
La stagione della pandemia in Liguria non è probabilmente diversa da quella che si sta vivendo in altre realtà, ma con alcune specificità non secondarie. Il nostro mondo, quello della comunicazione e dell’informazione (due cose profondamente diverse tra di loro anche se, quasi sempre, interpretate da giornaliste/i) ha pagato in prima fila: un morto (Paolo Micai, un collega video giornalista ex Mediaset, uno di quelli “esternalizzati” a suo tempo, un morto sul lavoro), almeno altri tre che si sono ammalati finendo in intensiva o rianimazione, un’altra decina i casi meno gravi. Al prezzo per così dire sanitario si aggiunge quello direttamente collegato alla pandemia e legato alla professione. Un dato percentuale, reale indica nel 40% la quota di lavoro tra servizi video, voce, scritti per on line e cartaceo realizzata dal mondo del lavoro autonomo arrivando al 95% per i video/voce servizi realizzati per le versioni on line delle varie testate storiche o di nuova generazione.
Direte, “dove sta” la notizia? In Liguria “sta” nella particolarità del sistema comunicativo pubblico, sanitario e no, legato soprattutto alla Regione (un’autentica macchina da guerra). Tutte le fasi di questo periodo lo hanno evidenziato. Dal sistema delle reiterate conferenze stampa, alla messe di comunicati, all’insofferenza per chi andava a scavare sopra e sotto i numeri quando quelli diffusi a livello Regionale non corrispondevano a quelli dei report governativi o della PCivile. Per arrivare agli attacchi personali o alla irrisione del tipo “le domande non si fanno così, ma così …così io rispondo”, oppure manifestando “rammarico” perché venivano poste domande sulle case di riposo (in questo anche il premier Conte non si è sottratto…).
Non solo. La collega, viene documentato quanto si sostiene con atti dell’assessorato, dell’azienda sanitaria centrale (Alisa), delle note interne dei comunicatori? Non arriva una risposta perché prima c’era stata una goffa smentita. Ma chi prova o ha provato a fare il suo, cioè il giornalista, finisce per essere puntato ad alzo zero. Per avere documentato con video o foto e testimonianze dirette le situazioni di alto rischio, di abbandono, di ritardi eccetera. In Liguria si è creato una sorta di asse medico politico (il responsabile infettivologo dell’ospedale San Martino, presidente della Regione e assessora alla sanità). Ci sono state puntate tragiche passando dall’iniziale “di Covid in Italia non è morto nessuno” al “sono numeri impressionanti” per arrivare alla indicazione di screening di massa (non ancora fatti) con ben poca tranquillizzante chiarezza per chi riceve le comunicazioni.
La macchina comunicativa regionale e sanitaria è stata (lo era da molto tempo) aggressiva, martellante, maltollerante le critiche (non gli insulti che nessun giornalista ha mai espresso) da parte di chi non ha tenuto un profilo, diciamo, più basso. E questo è lo snodo che va oltre al caso Covid. Perché in questi anni in Liguria gli unici posti di lavoro giornalistici, a tempo indeterminato o no, li ha creati il pubblico. Regione, assessorato alla sanità, aziende ospedaliere e qualche comune (Genova in testa avendo il sindaco anche un ruolo determinante nella struttura commissariale del dopo crollo del Morandi). Premessa: i posti creati dal pubblico erano legittimi, le selezioni sono state pulite (ho fatto parte, gratuitamente, per conto dell’Odg di alcune commissioni), hanno messo giornalisti dove devono stare dei giornalisti. In altri casi sono stati concorsi, selezioni sollecitate o concordate con l’Associazione Ligure dei Giornalisti/Fnsi e, o, l’Ordine. Ma non hanno regalato nulla. Ecco il nodo: questa strategia ha creato, crea, aspettative. Inconsciamente o meno ci può stare chi non alza troppo il tiro (non biasimo certo chi sopravvive a malapena perché non si può fare i rivoluzionari con il sottocoda degli altri). È un ragionamento antipatico? Lo so, lo è certamente, ma è reale. Lo testimonia la stessa difficoltà con cui il sindacato e l’ordine sono intervenuti, talvolta avvertiti in ritardo anche da colleghe e colleghi che pure qualche titolo di rappresentanza lo hanno sia in sindacato sia nell’ordine.
Qualche esempio?
Gli “ammassamenti” durante gli show per la presentazione di un carico di mascherine regalate all’Italia dalla pelosa solidarietà cinese, per il sollevamento dell’ultima arcata del nuovo ponte alla presenza del premier Conte (tanto è vero che la visita dalla presidente del senato è stata annunciata a cose fatte con foto e video forniti dai vari uffici stampa), il dire no a fotogiornalisti locali ma sì a una testata nazionale per un servizio in un ospedale. Oppure il negare sapendo di dire una bugia che non esisteva una mail alle strutture per anziani o negare che l’invito ai comunicatori del settore sanitario a dare risalto al dono di bavaglini ai neonati nel giorno di Pasqua era partito dalla presidenza della regione. Ancora tranquillizzare e dire che è tutto ok nonostante i video che in un paio di zone del ponente ligure o in uno dei principali ospedali genovesi il personale lavorava in condizioni belliche, non gradire le critiche sui costi o sulla effettiva utilità della nave ospedale per i post covid quando esistevano reparti ospedalieri (funzionali) inutilizzati. Nel migliore, si fa per dire, dei casi il tutto veniva liquidato come una critica politica legata all’opposizione. Un classico.
Il problema (non credo dipenda solo dall’essere una realtà relativamente piccola come la Liguria) è il malinteso senso e spirito di colleganza che si crea e si è creato tra comunicazione pubblica e informazione. Tutti colleghi e colleghe, certo, ma con ruoli diversi. E pur tenendo presente che chi lavora nel pubblico ha vertici (non giornalistici o, talora, giornalistici ma apertamente schierati con l’amministratore di turno) che impongono le cose più di un direttore di giornale, non facciamo una cattiveria al collega o alla collega del pubblico se ci incazziamo anche con loro perché cercano di propinarci teorie da Pinocchio. Possiamo capirlo se subiscono come spesso accade, un po’ meno se condividono. Ma non possiamo nasconderci dietro a un dito, a costo di essere antipatici anche perché la solidarietà in casi di necessità deve essere a doppio binario e non univoca.
Ultimo dato, figlio anche di questa situazione. Le 18 pagine a mo’ di numero monografico, con foto di ringraziamento ai liguri, acquistate dalla Regione su il Secolo XIX e le due puntate del raccontone (non raccolto da un collega del Decimonono, ma da una giornalista Mediaset…) del primario infettivologo del San Martino sui cento giorni del Covid. Polemiche, centinaia di commenti sui vari social e, la cosa più assurda, la serie di guano gettata sul giornale e sui colleghi da parte di commentatori vari, alcuni giornalisti compresi. I figli avvelenati della super macchina da guerra comunicativa pubblica/sanitaria ligure sono stati anche questi e non credo sarà un virus facile da debellare. Perché noi giornalisti, in generale, siamo alle corde, troppo distanti dalla realtà del lavoro autonomo e ormai stretti in due grandi gruppi editoriali peraltro poco concorrenti tra di loro. La Liguria con la pressofusione ReStaSeco (Repubblica, Stampa, Secolo XIX e i giornali locali) è stata il primo banco di prova con due giornali (Stampa e Secolo) di fatto cosa unica, non solo fisicamente nelle redazioni accorpate. Il resto si sta allargando ovunque: il neodirettore di Rep dice no a un comunicato del Cdr sul caso Fca (neo padrone del gruppone) finanziamenti etc. È successo qualcosa? Un tempo quel comportamento si chiamava articolo 28, comportamento antisindacale. Questo “virus” lo abbiamo anche in tutte le nostre case.