Recenti polemiche hanno travolto il capo del Dipartimento amministrazione penitenziario (D.A.P.) Francesco Basentini costretto alle dimissioni anche a seguito della incerta e balbettante figura cui lo ha costretto nel corso della trasmissione “Non è l’Arena” su “LA 7” il veemente presentatore Giletti, che ha ormai assunto la veste di “tribuno del popolo”.
Si addebitava a Basentini una circolare (legata all’emergenza Coronavirus) diretta ai direttori dei penitenziari che avrebbe indirettamente contribuito alla scarcerazione di numerosi detenuti, anche mafiosi, di più di 70 anni o con più patologie. La scarcerazione più eclatante era stata quella del “boss” del “clan” dei casalesi Pasquale Zagaria, mandato agli arresti domiciliari nel bresciano (covo del virus !!) dal giudice di sorveglianza di Sassari dopo che il D.A.P. non aveva fornito al magistrato notizie utili per trasferire il boss in una struttura carceraria con reparto di medicina protetto.
La vicenda sembrava finita con la nomina di Dino Petralia, P.G. di Reggio Calabria, a nuovo capo del D.A.P.
Senonché, nella successiva puntata di “Non è l’Arena”, interveniva telefonicamente Nino Di Matteo, attuale componente del C.S.M., il quale rivelava: a) che il 18/06/2018, il ministro di Giustizia Bonafede gli aveva proposto la nomina o a capo del D.A.P. o a direttore degli affari penali; b) che egli si era preso 48 ore di tempo per decidere e, quindi, aveva sciolta la riserva comunicando al ministro di voler accettare la nomina a capo del D.A.P., ma Bonafede gli aveva riferito che intendeva nominarlo direttore generale degli affari penali, carica che egli aveva rifiutato; c) che, sempre nel mese di giugno, erano state intercettate in carcere conversazioni di mafiosi che manifestavano grande timore se Di Matteo fosse stato nominato capo del D.A.P..
Tali dichiarazioni hanno suscitato aspre polemiche e da più parti si sono chieste le dimissioni del Guardasigilli accusato di essersi fatto influenzare dai boss mafiosi nella scelta del capo del D.A.P. poi caduta su Basentini, sostituto procuratore di Polizia. Tutta la opposizione ha, addirittura, presentato al Senato una mozione di sfiducia contro il ministro.
Ora, l’accusa che Bonafede avrebbe ritrattato la proposta a Di Matteo a causa delle dichiarazioni preoccupate dei mafiosi non sta – come ha detto lo stesso ministro – “né in cielo né in terra”.
Bonafede è, in realtà, l’unico Guardasigilli che sia stato in grado di far approvare (finalmente) una “legge anticorruzione” e (sempre finalmente) una normativa sulla prescrizione che dimezzerà la “mattanza” dei 130 mila processi prescritti ogni anno; e, del resto, si sta prontamente adoperando con idonei provvedimenti per far ritornare in carcere mafiosi, forse troppo frettolosamente scarcerati da giudici di sorveglianza che hanno dato vita ad una “emorragia” di scarcerazioni (e sul cui “modus operandi” da Cesano Boschese in poi, passando per Formigoni, una qualche riflessione forse si impone).
In questi sensi, sicuramente molto positivi, egli è distante anni luce da precedenti ministri di Giustizia (in particolare dal leghista Castelli e dal forzista Alfano).
Se questo è incontestabilmente vero, è altrettanto vero che egli ha il dovere di spiegare all’opinione pubblica il perché di quella scelta che appariva “ab initio” non del tutto rispondente a criteri di buon andamento della P.A..
Egli dovrà chiarire perché rinunziò all’apporto di un magistrato di grande esperienza e optò per altro magistrato, poco conosciuto, poco esperto di criminalità mafiosa e di ordinamento penitenziario, scelta che non sembra aver giovato ad una migliore efficienza del Dipartimento.
Il ministro ha questo obbligo per due ordini di motivi: il primo è che, in quanto rappresentante della collettività, deve rendere conto ad essa delle sue scelte, che devono essere improntate alla massima trasparenza ed efficienza; il secondo è che quella collettività, che lo ha eletto, vanta un vero e proprio diritto all’informazione perché funzionale all’esercizio di quella sovranità che, per Costituzione, le appartiene.
Chiarisca, quindi, il ministro – senza farsi scudo di quella “discrezionalità” rivendicata in un’intervista a “La Repubblica” – i motivi di una scelta che appare essere, ancora oggi, e anche alla luce della rivelazione di Di Matteo, per molti versi, francamente incomprensibile.
Avrà, così, l’occasione di smentire talune allusioni provenienti da alcuni organi di stampa che ipotizzano che il ministro abbia potuto forse ricevere un qualche suggerimento dal suo giovane vice-capo gabinetto – (assurto a tale importante incarico dopo appena dieci anni di carriera) – il giudice del lavoro Giancarlo Pucci, amico di Bonafede già ai tempi degli studi universitari e molto apprezzato dal Premier Giuseppe Conte che lo volle, per vari anni, come assistente (volontario) alla sua cattedra di diritto civile all’Università di Firenze. Il Pucci svolse, poi, per oltre cinque anni (fino al 2015), le funzioni nella medesima sede giudiziaria di Basentini (Potenza) del quale divenne amico, ed ove assunse la carica di segretario della giunta distrettuale dell’A.N.M., non prima di aver redatto il commento ad alcuni articoli del nuovo “codice delle assicurazioni private” nel “Commentario a cura di Alpa e Capriglione” (Cedam 2007).