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Il coraggio e la memoria

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Il 3 maggio scorso in occasione della giornata mondiale della libertà di stampa è stato lanciato sulla rete un nuovo progetto editoriale per ricordare l’impegno dei giornalisti italiani uccisi, in Italia e all’estero. Esattamente sessanta anni fa, il 5 maggio del 1960, veniva ucciso vicino a Termini Imerese il primo cronista nella storia d’Italia. Alcune di queste biografie coraggiose sono poco conosciute.
di Gaetano De Monte. Giornalista

Esattamente sessanta anni fa, il 5 maggio del 1960, veniva trovato lungo la strada ferrata della linea Palermo-Messina, tra le stazioni di Termini Imerese e Trabia, il cadavere di Cosimo Cristina, giornalista pubblicista, corrispondente per il giornale L’Ora di Palermo, dell’agenzia Ansa e del quotidiano Il Giorno. Nonostante la giovane età – aveva 24 anni quando morì – Cosimo Cristina aveva già condotto diverse inchieste su fatti avvenuti negli anni precedenti nei dintorni della zona delle Madonie: attentati a uomini di affari, traffici di eroina, omicidi di sacerdoti ed uccisioni di industriali. Episodi di cui aveva dato conto nel settimanale Prospettive siciliane da lui stesso fondato, con titoli a nove colonne di questo tipo: “La verità sull’omicidio dell’industriale Pusateri” e “Agostino Tripi è stato ucciso dalla mafia?”.

Un cronista scomodo per alcuni, dunque. Eppure per molti anni quella morte venne classificata come suicidio. Mentre nelle ore successive al decesso non fu eseguita l’autopsia. Soltanto sei anni dopo, nel 1966, il vice-questore Mangano provò a squarciarne il velo, ipotizzando in un verbale che il giornalista Cosimo Cristina «sarebbe stato tramortito da un colpo di spranga in testa e successivamente gettato sui binari della galleria». Non soltanto. Allora il corpo fu riesumato, ma dopo l’autopsia effettuata su uno scheletro, i periti stabilirono ufficialmente che si trattava di un suicidio, così il caso fu archiviato, per sempre, come tale. Sessanta anni dopo la morte di Cosimo Cristina, la verità giudiziaria è ampiamente difforme da quella storica, perché nel frattempo quasi 40 anni dopo, nel 2011, il suo nome viene inserito, insieme a quelli di Giuseppe Impastato, Mauro Rostagno e Giovanni Spampinato, nel memoriale dei giornalisti uccisi in missione del Journalist memorial di Washington.

Cercavano la verità, come è il titolo del progetto in rete presentato il 3 maggio scorso, in occasione del World Press Freedom Day, dall’associazione Ossigeno per l’informazione. Un sito internet per conoscere le storie e l’impegno dei 30 giornalisti italiani uccisi dalle mafie, dal terrorismo e dai conflitti all’estero. Un progetto che vuole essere «strumento al servizio della memoria collettiva, che deve essere costantemente nutrita per aumentare la conoscenza e migliorare la comprensione dei fatti, per conservare documenti e testimonianze e raccoglierne di nuovi», hanno spiegato dall’Associazione, a cui è giunto lo stesso giorno il messaggio di Dunia Mijatovic, Commissaria per i Diritti Umani del Consiglio D’Europa e in cui si legge che  «un giornalismo libero e di qualità è una risorsa preziosa per la democrazia». E ancora, ha aggiunto Mijatovic: «La pandemia del Covid-19 ci ha ricordato il ruolo essenziale che i giornalisti e altri professionisti dei media svolgono per offrire un’informazione affidabile, per contrastare la disinformazione e fare in modo che i decisori debbano sempre rispondere al pubblico del loro operato». Già, ed è stato, spesso, per aver messo a nudo le verità indicibili dei vari poteri, che alcuni di loro sono stati uccisi.

Cronisti ammazzati, a volte dimenticati. L’ultimo in ordine di tempo si chiamava Simone Camilli, fotoreporter dell’Associated Press (Ap) morto a cavallo dei giorni di Ferragosto del 2014, a Gaza, durante un giorno di tregua nei combattimenti tra l’esercito di Israele ed Hamas; Camilli è stato ammazzato dallo scoppio accidentale di un ordigno. Ucciso a Gaza, come “Vik”, Vittorio Arrigoni, l’unico cronista italiano rimasto sul campo che aveva documentato l’offensiva dell’esercito israeliano denominata “Piombo fuso”, che nei giorni di Natale del 2008 aveva provocato migliaia di vittime palestinesi. E fu ucciso proprio da un commando di terroristi palestinesi, Arrigoni – così hanno stabilito i processi – il 14 aprile del 2011: sequestrato all’uscita da una palestra, bendato, legato e poi ucciso, per motivi che restano sconosciuti. Lasciando di sé, a 36 anni, numerose pubblicazioni, alcune delle quali uscite postume, e un motto: “Restiamo Umani”, diventato oggi un orizzonte entro il quale si muovono tutti coloro, cooperanti, giornalisti, attivisti, fotografi, che in ogni parte del pianeta pretendono giustizia, pace e cooperazione tra i popoli.

Tra questi c’era il fotoreporter Andrea Rocchelli che aveva soltanto 30 anni ed aveva documentato le violazioni dei diritti umani che avvenivano, in particolare, in Kirgizistan e Inguscezia, con uno spiccato interesse, in generale, per tutto ciò che avveniva nelle regioni russe e dell’Europa dell’Est. Una passione che gli ha causato la morte nella primavera del 2014, insieme al collega e suo amico Andrej Mironov, nei boschi della città di Sloviansk, mentre documentava le condizioni dei civili intrappolati durante il conflitto del Donbass. I due giornalisti furono colpiti da proiettili di mortaio nel fuoco incrociato dei combattimenti che vedeva opposti l’esercito nazionale ucraino e gli indipendentisti filorussi. Per l’omicidio di Rocchelli è “stata fatta giustizia”, per lo meno nel primo grado di giudizio. Nel senso che nel luglio del 2019 la Procura di Pavia ha condannato a 24 anni di reclusione un militare italo-ucraino, Vitaly Markiv, appartenente alla Guardia Nazionale, stabilendo nella sentenza di primo grado un principio importante (che è stata dunque appellata) in base al quale: «non si possono attribuire genericamente e impersonalmente alla guerra le responsabilità per l’uccisione dei giornalisti durante i conflitti militari», dunque, riconoscendo, «le responsabilità personali che devono essere perseguite, a tutela dei cronisti e di tutti i testimoni scomodi che rischiano la vita per documentare in nome pubblico le violazioni dei principi umanitari», si legge così nel commento alla sentenza di Pavia nel blog dedicato alla memoria di Rocchelli.

In tutti i casi, dal 1960 ad oggi sono stati assassinati trenta giornalisti italiani, morti a causa dell’adempimento del loro lavoro, in Italia, e all’estero. Alcuni diventati “famosi” dopo la loro morte, altri, più spesso, dimenticati.

In tutti i casi, dal 1960 ad oggi sono stati assassinati trenta giornalisti italiani, morti a causa dell’adempimento del loro lavoro, in Italia, e all’estero. Alcuni diventati “famosi” dopo la loro morte, altri, più spesso, dimenticati. Come accade quasi ogni giorno ai cronisti che vengono minacciati in ogni parte del Paese. Minacce, che poi si traducono in omicidi come ricordano i dati dei primi mesi del 2020, i quali contano già 11 giornalisti ammazzati in tutto il mondo; mentre  nel corso del 2019 erano stati 49 gli operatori dell’informazione assassinati per via del loro lavoro. Che del loro coraggio, dunque, ne venga custodita memoria.

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