La vita di Giovanni Paolo II è stata più avventurosa di un romanzo. Nato a Wadowice il 18 maggio 1920, in gioventù fu un bravo attore, prima di ricevere la chiamata di Dio e rispondere con un abisso d’amore all’odio che imperversava in quegli anni nel paese che, ricordiamocelo sempre, ospita tuttora il campo di sterminio di Auschwitz.
Diventò papa nell’autunno del ’78, in un anno che ha sconvolto per sempre l’Italia e i destini del mondo, vedendo l’avvicendarsi di ben tre pontefici e il progressivo mutamento degli equilibri globali.
È difficile dire chi sia stato papa Wojtyla. Diciamo che gli aspetti positivi della sua biografia superano quelli su cui sarebbe bene discutere e che è indubbiamente anche merito suo se siamo giunti all’abbattimento del Muro di Berlino e se il processo di unificazione dell’Europa ha potuto compiere finalmente i passi che, fino a quel momento, non era stato possibilecompiere. Non c’è dubbio che l’apertura della Polonia, i colpi inferti dal sindacato Solidarność al regime del generale Jaruzelski e la ventata di novità che questo apostolo di Dio seppe portare ovunque nel mondo hanno costituito la parte migliore della sua predicazione.
Assai più discutibile, almeno dal mio punto di vista, è stata la sua condanna senza appello della Teologia della liberazione e di quei sacerdoti che lottavano in terra di frontiera contro dittature sanguinarie, per lo più pagando con la vita, si pensi a monsignor Romero, il prezzo del proprio coraggio.
Non c’è dubbio che il pontificato di Giovanni Paolo II abbia costituito una svolta nel panorama della Chiesa: il primo papa non italiano dopo cinquecento anni, il primo proveniente da oltrecortina, l’uomo che, idealmente, avrebbe dovuto costituire un ponte fra le due parti della barricata ma anche un feroce avversario di ogni forma di marxismo, memore probabilmente delle distorsioni che del comunismo erano state compiute nel suo paese ma forse, proprio per questo, non del tutto lucido nel distinguere fra una realtà e l’altra.
Era un papa coinvolgente e che si lasciava coinvolgere, un personaggio che si è sempre schierato in prima persona, che ha saputo perdonare pubblicamente persino il suo attentatore, che ha saputo essere globale pur essendo nato nella prima metà del Novecento, che ha amato i giovani come nessun altro, che ha istituito per loro la Giornata mondiale della gioventù, che li ha definiti “sentinelle del mattino”, che ha persino ballato insieme a loro durante il Giubileo del 2000; un papa che sapeva comunicare a meraviglia e arrivare al cuore di tutti.
Nel bene e nel male, stiamo parlando di uno dei principali protagonisti del Ventesimo secolo, come giustamente gli riconobbe anche un grande laico come Pertini, divenuto suo amico e con il quale condivise l’amore per la montagna.
Ricordiamo ancora il suo tormento durante la settimana santa del 2005, quando il venerdì sera venne inquadrato di spalle, abbracciato alla croce, non avendo più la forza di percorrere neanche un metro della Via crucis.
Se ne andò, all’età di ottantaquattro anni, alle 21,37 del 2 aprile 2005, tornando alla casa del padre con estrema dignità e consapevolezza.
Ho sempre pensato che uno dei principali desideri dell’uomo Karol Wojtyla, in sogno, fosse quello di tornare a sciare, di tornare a praticare sport, di tornare il ragazzo e l’attore che era stato, di tornare fra la gente che aveva caratterizzato la prima parte della sua vita, fra lo slancio per la continua scoperta del domani e gli atroci supplizi che il popolo polacco aveva dovuto subire.
Dire Karol Wojtyla significa prendere per mano il Novecento, i suoi lutti, i suoi drammi, i suoi abissi. Dire Giovanni Paolo II significa proiettarsi verso il Duemila, con le sue sfide e le sue opportunità che, persino in questi giorni così difficili, ci appaiono comunque immense.
Un secolo di storia, un grazie e l’impossibilità di pronunciare la parola addio.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Michel Piccoli, scomparso all’età di novantaquattro anni. Il caso ha voluto che se ne andasse proprio nel giorno in cui ricorre il centenario della nascita di Wojtyla, lui che in “Habemus Papam” di Nanni Moretti compie una fantastica riflessione sul potere e la sua fragilità. Nella sua magistrale interpretazione, molti hanno colto la premonizione delle dimissioni di Ratzinger due anni dopo l’uscita del film. Io vi ho visto anche qualche riferimento all’ultimo Wojtyla, alla sua stanchezza, al suo tangibile dolore fisico e alla sua scelta, opposta a quella del protagonista dell’opera, di resistere tenacemente fino a portare a compimento il suo calvario. Un gigante, ci mancherà.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21