Fa discutere a destra, fa tentennare parte della sinistra. La proposta della titolare del ministero dell’Agricoltura Teresa Bellanova, di dare a circa 600.000 irregolari un permesso di soggiorno a tempo determinato sembra non accontentare né chi si oppone ad ogni tipo di legalizzazione, né chi vede nella legalizzazione a singhiozzo un bicchiere mezzo vuoto. L’idea nasce dalla situazione dei braccianti e delle colf in nero che nel periodo di emergenza coronavirus hanno dovuto abbandonare il lavoro: gli immigrati sono così rimasti senza neanche quel minino di salario che prima riuscivano a mettere in tasca e chi ne aveva bisogno si è trovato a dovere fare a meno delle loro braccia.
La ministra di Italia Viva, che il lavoro dei braccianti conosce bene, ha dunque pensato di fornire un passaporto di legalità della durata di sei mesi, rinnovabili per altri sei. Un provvedimento legato alla situazione di emergenza sanitaria causata dalla pandemia e che la Bellanova vorrebbe fosse inserita nel secondo decreto Cura Italia del mese di maggio. Questa la sua proposta al premier Conte per riportare le colf al lavoro e i lavoratori stagionali nei campi: liberando questi ultimi dai criminali che li sfruttano per pochi euro, costringendoli a vivere in condizioni degradate e adesso anche senza le necessarie precauzioni per proteggersi dal virus che hanno reso, se possibile, ancora più invivibili i ghetti dove i braccianti vengono ammassati. Ma solo temporaneamente in quanto misura straordinaria.
Da dove arrivano quei lavoratori senza “papier”? Colf e badanti per lo più dall’est Europa o sud America mentre nei campi troviamo sempre più immigrati africani: qualcuno diventato da poco irregolare, dopo anni di contributi pagati, per aver perso il lavoro. Altri sono tra i tanti arrivati su barche e gommoni fatti partire dal NordAfrica. Quelli che ancora continuano a partire e continuano a volte ad arrivare, nonostante si cerchi di parlarne il meno possibile per non urtare la sensibilità dei cittadini provati dalle forti privazioni causate dal lockdown.
Forse non tutti sanno che in questi giorni, come nel mese di aprile, diverse imbarcazioni sono partite dalla Tunisia e sopratutto dalla Libia. Alcune sono riuscite a raggiungere le coste siciliane o Lampedusa. Altre sono scomparse. Altre ancora, nel sempre più assordante silenzio mediatico, sono state rispedite nell’inferno libico anche quando il respingimento non poteva essere tollerato dalle leggi del diritto internazionale marittimo, con la complicità di tutti gli attori di questo dramma: dai paesi più prossimi, come Malta e Italia, alla stessa Europa che da miope, con il nuovo virus, sembra diventata cieca e sorda.
Ma quello che ancora di più lascia attoniti chi di immigrazione ha sempre cercato di parlare, è il silenzio dei media italiani sugli arrivi costanti nel nostro paese. A parte i 146 soccorsi dalle ong Sea Eye e Aita Mari, tenuti in quarantena su una nave della Tirrenia e sbarcati ieri a Palermo (senza un solo caso di Covid-19 accertato) poco o niente si è saputo delle sei barche arrivate in autonomia a Lampedusa in meno di una settimana: men che meno delle decine di persone, già abbastanza provate, lasciate per terra sul molo perché la nave che doveva portarli in Sicilia non è arrivata per il maltempo e l’hotspot è pieno di altri migranti arrivati prima e messi in quarantena.
Se non fosse stato per i singoli cittadini, per i volontari e per il parroco dell ‘isola don Carmelo Lamagra che li ha ospitati in una struttura polivalente della chiesa, persino donne e bambini piccoli non avrebbero avuto un tetto sotto al quale dormire. Intanto al largo la nave cargo Epsilon aspetta da due giorni le indicazioni su dove sbarcare altre 78 persone soccorse in area Sar maltese, in attesa che La Valletta e Roma trovino un accordo sul rimpallo di responsabilità. Quasi a non voler urtare i nostri connazionali fin troppo turbati, come tutti siamo, dalle conseguenze della pandemia, da tutti quelli morti, i deceduti accertati che quasi 30.000 famiglie italiane piangono, dall’ansia di una risalita economica irta e durissima. Non possiamo pensare alle sofferenze degli altri perché noi stiamo soffrendo e non abbiamo risorse neanche per noi stessi. Eppure ci era stato detto che ora “siamo tutti sulla stessa barca”, che il virus aveva livellato l’umanità. Ma non è così. Anche in questo caso non tutte le barche sono uguali.
Così come il diritto al lavoro non è uguale per tutti. Sacro nella nostra Costituzione, il lavoro ha sempre meno tutele anche per gli stessi italiani mentre per chi arriva da lontano e chiede solo di faticare con dignità e rispetto, può diventare legale a tempo determinato.
Saniamo solo perché ci serve e quando ci serve: cosa succede dopo? Poi si torna nell’illegalità, nei ghetti o per strada, invisibili e dimenticati come quegli o uomini, donne e bambini lasciati dormire per terra dopo essere sbarcati: che si immagina debbano ringraziare solo perché sono sopravvissuti e che debbano sentirsi riconoscenti solo perché gli è stato concesso di mettere i piedi su quel molo. E che, spinti da una potente resilienza, si pensa riescano comunque a vedere come mezzo pieno il bicchiere mezzo vuoto. Anche a tempo determinato.