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Caso Orlandi: il Cimitero Teutonico e l’avariato piatto di un menu che rischia nuove portate indigeste

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Un’archiviazione, tre notizie. Quelle che si contano dopo il comunicato della sala stampa della Santa Sede, che giovedì 30 aprile ha annunciato la chiusura da parte della magistratura vaticana dell’inchiesta sulla possibile sepoltura di Emanuela Orlandi all’interno del Cimitero Teutonico. Scaturita da una lettera anonima che invitava a guardare nelle tombe di due principesse morte nella prima metà del diciannovesimo secolo (Sophie von Hohenlohe, 1836, e Carlotta Federica di Mecklemburgo, 1840), l’indagine ha visto lo scorso 11 luglio l’apertura dei due loculi, che però risultavano vuoti. Ciò era dovuto a una serie di lavori di ampliamento della struttura del Teutonico, comprendente anche l’attiguo Collegio, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, per i quali i resti delle due nobildonne erano stati traslati. Da lì la decisione di aprire anche gli ossari del camposanto, all’interno dei quali vi erano migliaia di frammenti ossei. Esaminati dal professor Giovanni Arcudi, massimo esperto di antropologia forense e docente di medicina legale all’Università Tor Vergata di Roma, e dal suo staff, i reperti sono stati ritenuti risalire a prima della fine del 1800. Quindi fra di loro non vi potevano essere tracce della giovane cittadina vaticana scomparsa a Roma il 22 giugno 1983. Così i promotori di giustizia (l’equivalente dei nostri pubblici ministeri) titolari del fascicolo ne hanno chiesto l’archiviazione, accolta dal Giudice Unico.

Un esito purtroppo tutt’altro che sorprendente. Almeno per noi di “Articolo21”, fra i pochi media nazionali ad aver assunto una posizione di motivato scetticismo davanti all’uscita della notizia, per i cui dettagli si rimanda al pezzo pubblicato nell’occasione. Qui ci limitiamo a riassumere il concetto di fondo: qual è il soggetto che, responsabile di un’azione criminosa, accoglie di sua spontanea volontà in casa propria i famigliari della vittima, che lui stesso ha eliminato, per mostrare loro dove ne abbia occultato le spoglie? Nessuno. E se qualcuno lo dovesse fare, è perché è sicuro di non avere niente da nascondere. Almeno nel luogo che lascia ispezionare.

Senza volerlo il verdetto giunto dai Sacri Palazzi premia dunque la “buona informazione”. Quella che non si abbandona al sensazionalismo in nome delle luci della ribalta bensì mantiene autonomia di pensiero e cerca di capire una notizia prima di raccontarla. Un modus operandi ben differente dalla brutta abitudine del “riferire”, cioè dare in pasto all’opinione pubblica la prima voce raccolta senza preoccuparsi di verificare la sua attendibilità. Proprio quest’acriticità preventiva ha tramutato nei decenni la sparizione di Emanuela Orlandi in un pantagruelico banchetto di fake news senza sosta. Al punto da inquietare che, nonostante recenti e ripetuti mal di pancia (le ossa della nunziatura di via Po o la telefonata mai giunta in Vaticano la sera in cui tutto iniziò), ci sia ancora il desiderio di sedersi a questa tavola e intingere questa triste storia nella suggestione e nella fantasia.

Dal cibo ai commensali. La seconda notizia è che d’ora in avanti il Vaticano potrà sempre affermare di essersi messo a disposizione per l’accertamento della verità. Un vento già spirato nel comunicato – le Autorità vaticane hanno offerto, sin dall’inizio, la più ampia collaborazione” – e alimentato dalla facoltà lasciata alla famiglia Orlandi di procedere, per conto proprio, a eventuali ulteriori accertamenti su una serie di quei frammenti del Teutonico, momentaneamente sigillati in appositi contenitori custoditi presso la Gendarmeria vaticana. Un’operazione costosa, ultimo atto di una strategia comunicativa impeccabile all’ombra del Cupolone dove, grazie a quella missiva favolistica, hanno colto la palla al balzo per rovesciare il loro atteggiamento nei confronti di una vicenda verso la quale avevano sempre mostrato disinteresse e fastidio. Per quasi quarant’anni, scarsa collaborazione con gli inquirenti italiani e nessuna voglia di rispondere alle domande, anche dello scrivente, sul tema. Ma perché tanta reticenza su Emanuela Orlandi se era una loro cittadina? Che cosa dà fastidio della sua scomparsa? C’è qualche particolare che, se scoperto, può danneggiare irrimediabilmente l’immagine dello stato più piccolo del mondo?

Un trittico d’interrogativi antipasto della terza notizia: il rischio che l’avariata abbuffata prosegua. Perché i possibili accertamenti su quei frammenti prestano il fianco ad altre speculazioni da parte di chi ha tutto l’interesse ad adoperare la tragedia Orlandi per fini estranei all’accertamento della verità. Un menù che negli ultimi tre anni ha servito l’infondato comunicato delle spese della Santa Sede; l’abbaglio delle ossa della nunziatura apostolica di via Po; la mai arrivata telefonata in Vaticano la sera della scomparsa e le testé citate tombe del Teutonico. Sempre presente, sul fondo di questi piatti, la stilizzazione di un vessillo giallo e bianco con due chiavi al suo interno. Solo un caso?

D’altronde se è esecrabile usare il dramma di una minorenne mai ritornata a casa come strumento di ricatto, vale anche la pena ricordare che gli scrupoli di coscienza, come non appartengono al mercenario pronto a vendersi per un piatto di lenticchie, non sono propri nemmeno del politico più machiavellico. Indipendentemente che indossi un completo “fumo di Londra” o la veste talare.


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