“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione.“
In questo discorso, pronunciato da Piero Calamandrei nel salone degli Affreschi della Società Umanitaria il 26 gennaio 1955 in occasione dell’inaugurazione di un ciclo di sette conferenze sulla Costituzione italiana, risiede la ragione per cui il 25 aprile, la festa della Liberazione deve essere considerata la festa laica più sacra per gli italiani.
La Liberazione degli italiani dalle truppe nazifasciste che avevano assediato e stavano sterminando il popolo dopo l’8 settembre, è stata il risultato della lotta dei partigiani, di quella atroce guerra civile che fu la Resistenza. Una guerra combattuta da uomini giovani, da adolescenti, da anziani e anche da tante, tante donne (si stima che circa 35000 furono le partigiane combattenti e 20000 patriote prestarono in vario modo il loro contributo alla lotta di liberazione).
Oggi, a 75 anni di distanza da quel 25 aprile 1945, la resistenza delle donne è un aspetto che la storiografia deve rivalutare e riscrivere, al punto che si è parlato di Resistenza negata. Recentemente Simona Lunadei, storica che si è occupata della resistenza al femminile in molti testi, fra cui Storia e memoria, Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni ’80, ha affermato: “dopo la fine della guerra, direi dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile”, questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali.
Uno dei pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, Le donne nella resistenza del 1965 e il romanzo di Renata Viganò L’Agnese va a morire pubblicato nel 1949.
Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, vestiti, riviste, messaggi, medicine. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Ma non erano armate, quindi non si potevano difendere. Molte donne hanno protetto i partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro da mangiare; un numero minore partecipò effettivamente alla lotta armata.
La Resistenza non sarebbe stata possibile senza le staffette, e le staffette, spesso, erano donne.
Poche donne sono state riconosciute come partigiane; soltanto in 19 hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni. Questo perché se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, quindi pochissime sono state riconosciute come combattenti.
Nelle stesse brigate partigiane hanno incontrato molti ostacoli, a loro non veniva concesso l’uso delle armi. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’eguaglianza di genere che, all’epoca, era ancora un tabù.
A partire dagli anni 90, finalmente, le donne che hanno partecipato direttamente alla Resistenza italiana, hanno cominciato a parlarne pubblicamente. Qualcuna ha scritto delle autobiografie (per es. Marisa Ombra, Carla Capponi, Marisa Musu….)
Oggi, in occasione del 75° anniversario della Liberazione sarebbe dovuto arrivare nelle sale italiane Bandite, un docu-film completamente autoprodotto da “Bandite Film”, realizzato con la collaborazione dell’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna, dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Parma, dell’ISREC – Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea in Ravenna e Provincia, del Museo del Senio di Alfonsine, e del CEDOST – Centro di Documentazione Storico-Politica sullo Stragismo di Bologna.
Si tratta di un film-documentario di Alessia Proietti, sull’esperienza delle donne che dal ’43 al ’45 combatterono nelle formazioni partigiane.
La distribuzione è stata consentita rendendo il film disponibile gratuitamente in streaming su OpenDDB dal 20 al 26 aprile 2020, data la situazione dettata dai provvedimenti relativi alla pandemia da covid-19.
Sei partigiane che hanno partecipato alla lotta di liberazione dalle truppe nazifasciste, ognuna con una storia diversa, con una estrazione sociale diversa, si raccontano in una intervista e ripercorrono le tappe dolorosissime della loro vita e della vita del nostro paese, dalla fine degli anni ’30, in particolar modo da quel 10 giugno del ’39, quando l’Italia entrò in guerra.
Annita Malavasi, Viera Geminiani, Silvana Guazzaloca, Mirella Alloisio, Walkiria Terradura e Bianca Guidetti Serra disegnano con il loro linguaggio le vicende strazianti di chi non accettò dal primo momento la sottomissione a una dittatura, come quella fascista, e la condizione di perdita di ogni forma di libertà e decise di compromettere la propria vita, le proprie scelte, di cambiare nome e identità, per combattere, in ogni forma possibile per il loro ideale.
Nelle loro voci di donne ormai anziane si sente tutto l’orgoglio di quella scelta, a partire dal primo passaggio: la necessità di un nome di battaglia. Laila, Mirella, Walkiria, Rossella… nomi che avevano un riferimento simbolico preciso (Rossella in onore dei fratelli Rosselli trucidati senza scrupolo alcuno dai fascisti, Walkiria perché il riferimento al mito nibelungo si addiceva ad una guerriera, e così via). Qualcuna mantiene ancora, nelle parole scelte e nel tono della voce, quella vis che dava il coraggio di agire e sfidare il nemico; qualcuna appare più nostalgica di un tempo lontano che, per quanto atroce, fu sempre il tempo della loro gioventù.
Le interviste sono interrotte da approfondimenti affidati all’intervento di alcune storiche, studiose di quel fenomeno che fu definito la resistenza negata; seguono poi immagini di repertorio, le dichiarazioni di Mussolini, i documenti che attestavano la fucilazione di molti patrioti anti-fascisti, fotografie del tempo, soprattutto di loro, delle sei protagoniste da giovani, con le pettinature anni ’40, con le biciclette, con lo sguardo fiero e consapevole. La colonna sonora che fa da collante ai racconti in prima persona è un collage di canzoni degli anni ’40 e di versioni diverse, con vari arrangiamenti, dell’Internazionale e di Bella ciao (per es. la struggente interpretazione di Milva), scelta quasi inevitabile ma di sicuro, grande impatto emotivo.
Le sei donne ci raccontano cosa significò per loro assumere la responsabilità di esserci, di entrare nei gruppi combattenti, di rischiare fino in fondo. Le donne che in quel tempo erano considerate solo delle fattrici, istruite dal fascismo ad essere solo mogli e madri, “conigli che dovevano dare figli alla patria” e basta, dovettero dimostrare di avere altro da dire e da fare; dovevano diventare leoni.
Lasciarono la famiglia, alcune giovanissime, inforcarono la bicicletta e divennero staffette, nascondevano le armi nel reggiseno e sotto la gonna, salirono sui monti per sostenere gli uomini che combattevano, aiutarono a costruire ordigni, curavano i feriti, si procuravano e preparavano da mangiare. Erano lì, in prima e in seconda linea “a conquistare la nostra primavera”.
Quando una donna veniva catturata, ci raccontano, veniva incarcerata, torturata perché parlasse, ma a lei era riservata anche una pena che portava un carico di umiliazione feroce: veniva violentata sessualmente, più volte, con sevizie ripetute, perché così si marcasse a fuoco l’infamia e si colpisse la femminilità da sempre intesa come condizione di inferiorità.
Anche per questa ragione per molto tempo le partigiane sopravvissute non parlarono.
Una di loro, nome in codice Rossella, vuole sottolineare un aspetto, uno dei più controversi della storiografia sulla liberazione: il vero ruolo e il reale peso che ebbero le brigate partigiane contro i nazi-fascisti nei confronti degli alleati ritenuti “liberatori”. Ebbene Rossella, con tono pacato ma risoluto, racconta: “Genova era stata liberata dai partigiani, quando il 25 aprile sono scesi i partigiani dai monti, e a Genova è arrivato l’esercito americano… ha fatto una passeggiata. Noi ci eravamo liberati!”
Questa compromissione delle donne, la loro netta partecipazione fu un fattore determinate perché si potesse, poi, a partire dal ’46, iniziare una lunga lotta per l’emancipazione femminile.
E’ nella Resistenza che affondano le radici per tante conquiste, prima fra tutte il diritto al voto. Ricordiamo sempre che all’Assemblea Costituente parteciparono 21 donne (un nome su tutte quello di Nilde Jotti).
Non è difficile comprendere le ragioni del tentativo che fu fatto a lungo di tenere nell’oblio la resistenza al femminile; gli anni ’50 continuarono a proporre il modello della madre/moglie alla quale, adesso, era concessa la lavatrice, e la 600 per le gite fuori porta la domenica, ma sempre sottomessa e remissiva, sempre soggetta al delitto d’onore (fino al 1981), sempre amorevole verso il marito e, al massimo, segretaria.
Le partigiane restarono Bandite. Bandite quando erano ribelli rivoluzionarie, bandite adesso dalla storia che non parlava di loro.
In questo documentario le sei partigiane superstiti ci affidano nelle loro parole una volontà di riscatto importante, a 75 anni dalla liberazione: “la storia delle donne non è un’altra storia, è la stessa storia”. Raccontare quella storia può contribuire anche oggi, ancora oggi, a completare il percorso di affermazione dell’emancipazione femminile.
E allora quando andiamo in pellegrinaggio su quei campi in montagna dove Calamandrei voleva che cominciasse il viaggio di chi vuole conoscere da dove nasca la nostra Costituzione, andiamo a cercare i partigiani che furono impiccati, ma troveremo anche le donne, leonesse uccise, torturate e in più violentate, per dare anche a noi, noi che oggi ci sentiamo tanto lontani da quegli eventi, la LIBERTA’.