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Riflessione sulla luce nelle case tradizionali giapponesi. Libro d’ombra di Junichiro Tanizaki

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Makkuro-kurosuke. In Giappone il buio è solo la metà del chiarore. Entrando nelle case tradizionali una lama di luce lattiginosa taglia la stanza e allora si ha l’impressione che minime presenze nel fremere del pulviscolo, fuggano verso luoghi più riparati. Kuro significa nero, buio e suke, ha a che vedere con il sovrintendere. Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro) è il film più giapponese di Myazaki. Questi spiriti delle case tradizionali giapponesi sono chiamati talvolta anche susuwatari (fuliggine errante). Il Giappone è un paese in cui le divinità si incontrano per i sentieri, lo shinto è la religione della natura: vi sono intere strutture templari in cui il cuore, il luogo più sacro è un albero secolare oppure una roccia fessa da cui sgorga l’acqua. In mezzo ai boschi, nelle vallate alpine, più isolate ma anche nei sobborghi delle città ovunque si sente la presenza del sacro, addirittura in quei minuscoli, prodigiosi giardini che si frappongono – larghi un passo di bambino − tra una casa e quella limitrofa.

Tra i libri più importanti per cercare di comprendere il senso stesso del sentire giapponese in relazione alla modernità e alla tradizione è sicuramente Libro d’ombra di Junichiro Tanizaki, in originale Elogio dell’ombra e rititolato per non sovrapporsi, confondendolo, all’omonimo volume di  Jorge Luis Borges. Libro d’ombra risale al 1933, quando il paese di Tanizaki era interessato da una sconcertante, a suo modo di vedere, occidentalizzazione, che veniva esemplificata proprio nell’avvento della luce artificiale. Il testo fu pubblicato nella prima traduzione italiana da Bompiani nel 1982.

Gli interni giapponesi, fatti di spazi quasi vuoti, di pareti di carta che invadono di quiete e tepore il cuore degli uomini, sono il luogo del buio delle «tonalità offuscate, e caliginose». La luce prima di passare con fatica attraverso lo shogi di carta di gelso, di languire obliquamente lo «scialbo filtro» deve affrontare «ombre di spioventi, verande» per morire infine nel riflesso di una «luce senza bagliore».

Il lucore che stagna in queste stanze antiche si addensa e si fa materiale, luogo di passaggio, spessore di spazio e tempo in grado di disgregare la propria presenza nella realtà. E anche l’oro che talvolta decora i paraventi in lamine sottili, mostra una «bellezza grave e accorata», simulando il fallace lucore, forse, di un crepuscolo lontano.

Nel mondo d’ombra si manifesta anche l’universo del teatro , l’oscurità è quella delle grandi dimore nobiliari: qui anche i tessuti più sgargianti dovevano inchinarsi al buio.

Se qualche anno prima uno scrittore occidentale come Robert Louis Stevenson poteva scrivere In difesa dell’illuminazione a gas, quasi sprezzante degli antenati che vagavano persi nella semioscurità, Tanizaki legge nel buio inevitabile l’inclinazione dei giapponesi ad accettare «i limiti e le circostanze dalla vita». Ma questa non è rassegnazione, la bellezza di essere inghiottiti dalle tenebre per scoprirne la perfezione, allontana dal desiderio, tutto occidentale, di snidare con la lampada «sin l’ultima particella d’ombra» e avvicina al senso di assoluto, allo yugen di cogliere l’ultimo bagliore spegnersi mentre si perde la cognizione dello spazio. Per affondare nel sonno, nel sogno. Senza nemmeno vi sia davvero poi il bisogno di risvegliarsi.


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