In questa brutta stagione di città spettrali (che sembrano immaginate da De Chirico) e cattedrali nel deserto (non contigue però della metafisica in pittura) , gravate di incognite e tracce di plurime disgregazioni , ci lascia Sergio Fantoni gentiluomo- del teatro e della televisione – essenziale, scarno, senza fronzoli, possente e mai affettato nell’eloquio. Attore vigoroso, a tutto tondo, di scrupoloso professionismo e impeccabile presenza scenica, duttile nella vocalità (che, ingrato destino, gli venne meno in un cattivo giorno della vita, causa una cronica laringite) e dalle rassicuranti sembianze, scaturite da un fascino naturalmente “virile” ma assolutamente mai ostentato. Una genìa di interpreti gentilizi e non caratteristi, quindi adatti ad un’ampia varietà di ruoli– da Luigi Vannucchi a Giancarlo Sbragia, da Aroldo Tieri a Ivo Garrani, da Aldo Giuffrè a Nando Gazzolo- che oggi tende a farsi rara, anzi sparire, poiché azzerata dal ‘nanismo’ delle immagini e del primo piano televisivo. Non per lamentarcene impotenti (alla mutazione di ‘mezzo’ e di ‘gusti indotti’), ma per sottolineare una fine d’epoca e un diverso modo di concepire il lavoro dell’attore, del regista, di ogni altro operatore (purtroppo interinale) dello spettacolo.
Nato a Roma nell’ agosto del 1930, Sergio Fantoni era figlio d’arte – e con perenne orgoglio. Suo padre Cesare , sua madre Afra Arrigoni furono, all’inizio del novecento, validissimi attori teatrali, fieri del talento e del “bell’aspetto” di quel ragazzo così tenace e di costante applicazione “del desiderio fattosi volontà”.
Autodidatta e coscientemente privo di “frequentazioni accademiche”, il giovane Sergio aveva intrapreso a lavorare nel teatro di prosa con la compagnia Morelli – Stoppa (prima) e con Vittorio Gassman (dopo) sin dalla fine degli anni ’40, a seguito di uno svezzamento fatto di sketch alla radio, alcune comparsate a Cinecittà e persino una breve stagione nell’avanspettacolo.
Il 1955 fu l’anno del suo debutto televisivo, comprimario nel «Il mercante di Venezia» di Shakespeare, salutato da un incoraggiante un successo di critica e di pubblico. Diversificando le sue interpretazioni (tutte connotate da una cifra stilistico- espressiva di elegante sobrietà), negli anni successivi, Fantoni aveva continuato a dividersi fra televisione e cinema, interpretando una lunga serie di film storico-avventurosi- per poi rivelarsi in opere di grandi maestri quali «Era notte a Roma» (1960) e «Viva l’Italia» (1961), entrambi di Roberto Rossellini; «Il sicario» (1961) di Damiano Damiani; «Tiro al piccione» (1961) di Giuliano Montaldo; «Senso» (1954) e «Il gattopardo» (1963) di Luchino Visconti.
Nonostante la fedeltà, la predilezione per i “classici”, Fantoni raggiungeva la sua maturità artistica mostrando empatia e curiosità per i più moderni Beckett, Jonesco, Camus, O’Neil, Stoppard, oltre al sempre-amato Pirandello, del quale affrontò gran parte del repertorio delle “maschere nude”. Sul grande schermo proseguivano intanto le sue partecipazioni di rango scritturato in film di Maselli, Damiani, Montaldo, mentre la sua popolarità cresceva grazie a quasi tre anni trascorsi (proficuamente) a Hollywood (inizio degli anni ’60), lavorando con Blake Edwards e Mark Robson. E prestando la sua calda voce al doppiaggio italiano di ‘mostri sacri’ come Henry Fonda in «Meteor», Rock Hudson in «Il gigante», Ben Kingsley in «Gandhi», Marlon Brando (solenne e nefasto nel ruolo del colonnello Kurtz) in «Apocalypse Now» di Francis Ford Coppola.
Fra i primi a intuire e affinarsi in relazione alle potenzialità dello “scatolone” televisivo, Fantoni fu assiduo protagonista del fior fiore degli sceneggiati d’epoca, diretto da nomi epici quali Majano, Bolchi, De Bosio. Da “Anna Karenina” a “La coscienza di Zeno” da “Ottocento” a “Delitto di Stato”, sino a farsi ‘guest star’ per un episodio della serie- Montalbano, diretta da Alberto Sironi.
Il più popolare? Il ruolo ineffabile ed impeccabile di Costantino Nigra, eroe positivo e tessitore dell’unità d’Italia, braccio operativo del Conte di Cavour, quando e da poco (nella televisione in bianco e nero) si festeggiava il tribolato, molto retorico centenario (trasposizione del romanzo di Salvator Gotta) di quella lunga penisola o espressione geografica “cocciutamente priva di unità fra i cittadini”
Non mancò, e fu degna di nota, la collaborazione con Luca Ronconi – avveratasi nella messinscena di un quasi sconosciuto testo elisabettiano, “I lunatici”di Rowley e Middleton (a metà degli anni sessanta), allocato dentro una gabbia psichiatrica (citazione da “Marat Sade”?), ove sesso, potere, violenza e calcolo “gareggiavano in una rappresentazione inquietante e criptico” Uno spettacolo – come fu scritto inoltre- “perturbante, e complicato da decifrare”, pur trattandosi di un capitolo fondamentale inerente la relazione fra tracotanza (dei più) e disagio mentale (dei figli d’un dio minore) antecedente la legge Basaglia.
Il sodalizio col regista dell’”Orlaldo fusioso” continuò per qualche anno, sempre fruttuoso, quasi solennizzato da una eccellente edizione de “Per Lucrezia” di Giraudoux . Personalmente, e abitando a Roma, ebbi modo di apprezzare le sue ultime interpretazioni teatrali (“I soldi degli altri”, diretto da Maccarinelli, “I giganti della montagna” diretto da Le Moli, “Il caso Moro” diretto da Cristina Pezzoli), prima che l’incidente alle corde vocali convertisse la sua innata vocazione al ruolo di impresario per la stimata e pluripremiata Compagnia La Contemporanea- e le frequenti trasferte, da regista, al Teatro Due di Parma.