Allora la mamma aveva 15 anni e non conosceva ancora papà, non sapeva che lui, 18 anni, era un giovane partigiano di Giustizia e Libertà della “formazione del comandante Nando”, meno di 800 uomini, operativa nel Monferrato. Mesi di guerriglia contro le truppe nazifasciste, ritirandosi e riattaccando per contrastare l’operazione Koblenz-Süd, iniziata
il 2 dicembre ’44. Paesi e piccole frazioni, cascine, boschi, strade di campagna, piccole vallate dell’Alto Monferrato e delle Langhe finirono nei rastrellamenti di 2.300 uomini. Erano in gran parte reparti fascisti specializzati nella lotta antipartigiana e considerati dai tedeschi tra i pochi kameraten affidabili. Una guerra che aveva per i partigiani una sola logica: resistere a forze ben armate, ben nutrite e capaci di crudeltà, impiccagioni, fucilazioni, incendi di case e cascine, con la sola giustificazione della rappresaglia. Un limite per le possibilità di contrattacco delle formazioni partigiane, mani legate e quando andava male dietro la schiena. Ma le azioni continuavano e nel disegno che lentamente si componeva le tante bande di giovani che avevano imparato a gestire uno Sten sceso dal cielo con i lanci degli Alleati, o una carabina più rozza e talvolta antica, si raggruppavano in un fronte che accerchiava Torino, per prenderla, liberarla. Così, con pulci, zecche, piaghe alle mani per aver troppo impastato il plastico per far saltare i binari e tagliare i collegamenti alle truppe nazifasciste, anche mio padre arrivó sulle colline di Torino. Era un assedio, un appuntamento che si erano dato partigiani dell’astigiano, del cuneese, del biellese.. Anche a lui – che oggi a quasi 94 anni ogni tanto rilegge qualche pagina del suo diario di vita partigiana, diligentemente tenuto fino alla stagione della Polizia del Popolo – la storia passò addosso senza troppi complimenti. C’erano tra i diciottenni quelli che avevano scelto la X Mas, i repubblichini di Salò e chi aveva preso la strada della montagna: un mitra, poco da mangiare e una scommessa che aveva il gusto della ruggine e del ferro. Cosa fosse esattamente quella scelta forse non lo sapevano bene nemmeno loro. Facendo qualche conto tutti i partigiani forse arrivavano a 40mila unità, le forze nazifasciste tra 600 e 700mila, sulla carta, e senza un po’ di follia, non ci sarebbe stata storia. Poi c’erano, a dirla tutta, anche i tanti rintanati, quelli chiusi in cantina o in soffitta, pronti a uscire dopo una qualche liberazione che prima o poi sarebbe arrivata, entusiasti di inneggiare al vincitore e travolti da una passione genuina. Per fortuna la storia di loro non si cura più di tanto, com’è giusto. Permettete un piccolo paragone. A 18 anni io pensavo molto alle ragazze, all’università (ma senza esagerare), molto alla musica, alle discoteche e a strimpellare la chitarra. Lui, mio padre e i suoi compagni di vita partigiana, avevano altre priorità, vivere era la prima. Non era così scontato, tanti sono rimasti su quelle montagne sotto qualche sasso, finiti contro un muro, altri sono stati deportati in Germania come renitenti di leva. C’erano tradotte che portavano a posti con nomi difficili anche solo da pronunciare dove era usanza costringere a scelte nette: campi di lavoro o anche qualcosa di peggio,oppure tornare in Italia ma con un basco scuro e frigio in testa a far da operai in un’azienda che parlava troppo tedesco e uccideva tanto in italiano. Per fortuna sua e mia, Dario Cerrato ha scelto la montagna e gli è andata bene, è sopravvissuto. Una sera, siamo ormai negli anni ’50, al dancing Il Faro di via Po a Torino, chiese al suo amico, tal Fred Buscaglione che suonava lì con gli Asternovas, chi fosse quella bella ragazza esile con occhi e capelli scuri. Fred era sicuro di sé, sfacciato, gli disse “non la conosco ma te la presento lo stesso”. Ed eccomi qui.