Trapani 2 Aprile 1985: la mafia fa strage di una famiglia per tentare di uccidere il pm Carlo Palermo, e si attende ancora verità e giustizia per Barbara, Salvatore e Giuseppe
Il tritolo. L’esplosivo che Cosa nostra usò per riempire un’auto fermandola su una semi curva della frazione di Pizzolungo, lungo una strada litoranea che collega a Trapani una zona di villeggiatura sul mare, era un esplosivo per così dire marcato, riconoscibile. Quando il 2 Aprile 1985 Cosa nostra tentò di uccidere il magistrato Carlo Palermo, innescando la scintilla al passaggio della blindata, una Fiat Argenta, seguita dalla scorta che viaggiava su una normalissima Fiat Ritmo, lo stesso esplosivo aveva fatto già la sua comparsa appena pochi mesi prima, il 23 dicembre 1984, quando fu utilizzato per dilaniare i vagoni del treno rapido 904 Napoli-Milano.
L’esplosione avvenne nella galleria dell’Appennino, ci furono 16 morti e 267 feriti. A Pizzolungo ci furono tre morti e una immane devastazione di case. Al momento del “botto” tra l’auto imbottita di tritolo e l’auto con a bordo il magistrato si trovò un’altra vettura, la guidava una donna, Barbara Rizzo, 31 anni, stava portando a scuola i suoi gemellini, Salvatore e Giuseppe Asta, avevano sei anni. Loro fecero da scudo alle vite del magistrato, dell’autista Rosario Maggio e degli agenti di scorta Totò La Porta, Nino Ruggirello, Raffaele Mercurio. Il commando era appostato pochi metri più avanti, sul tetto di una villetta, chi premette il telecomando non potè non vedere che c’era un’altra auto che percorreva quella strada ma agì ugualmente. Passarono pochi giorni da quel 2 aprile, e la sera del 20 aprile 1985 lo stesso tritolo venne usato per distruggere una villetta a Piana degli Albanesi, di proprietà della prof. Elda Pucci, che all’epoca si affacciava alla politica, chiamata nella Dc palermitana che l’odierno Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, stava ricostruendo dopo il commissariamento ordinato dal segretario De Mita.
Quattro anni dopo 21 giugno 1989, un borsone, di quelli solitamente usati da pescatori subacquei, riempito sempre dello stesso tritolo, viene abbandonato sulla scogliera del mare dell’Addaura a Palermo: davanti la casa al mare del giudice Giovanni Falcone. Fu quello il primo tentativo di Cosa nostra di uccidere il magistrato siciliano. Ecco fermiamoci un attimo prima di andare avanti, per ricordare ciò che disse Falcone rispondendo alle domande di un giornalista, disse che quell’attentato era opera di menti raffinatissime, e disse questo mentre c’era chi, anche personaggi altolocati, anche colleghi di Falcone, andava dicendo che Falcone quell’attentato se lo era fatto da solo. Tornando a Trapani, era quasi la stessa cosa che si diceva di Carlo Palermo. Per il sindaco della città, Erasmo Garuccio, la mafia a Trapani non c’era, ed era come se Carlo Palermo trasferitosi alla Procura di Trapani da poco meno di 50 giorni, provenendo dall’ufficio istruzione del Tribunale di Trento, si fosse portato appresso i suoi attentatori. Riprendiamo il filo del tritolo.
Lo ritroveremo il 19 luglio del 1992 dentro quella Fiat 126 fatta esplodere in via D’Amelio a Palermo per uccidere il procuratore Paolo Borsellino ed i suoi cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Walter Cusina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Sempre lo stesso tritolo, “pentrite” oppure detto T4 o ancora “sentex”. Un esplosivo fornito alle Forze armate cecoslovacche di produzione italiana. Basta solo questa traccia, questa prova , per aver subito chiaro che Pizzolungo come gli altri attentati con lo stesso esplosivo, non furono solo malefatte mafiose, ma in queste tragiche trame c’era anche altro, ciò che oggi per tutti i processi che hanno riguardato questi fatti, Pizzolungo compreso, è rimasto fuori, indenne: mafia, massoneria, poteri occulti, apparati istituzionali compromessi con Cosa nostra, anzi no compromessi ma complici.
Per la strage di Pizzolungo dopo anni di processi, ci furono quattro condannati al carcere a vita, ritenuti mandanti della strage: Totò Riina, il feroce mafioso di Corleone, Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani, i boss palermitani Balduccio Di Maggio e Nino Madonia. Gli esecutori della strage li conosciamo benissimo, Nino Melodia, Vincenzo Milazzo, Gino Calabrò, Filippo Melodia, sono stati condannati in primo grado e con altri assolti in appello e in Cassazione. Ma in una delle sentenze di condanna dei mandanti c’è scritto che loro erano i componenti del commando, e che furono assolti in appello da giudici che presero uno svarione, non considerarono alcune prove. Qualcuno di loro è morto, altri sono in cella per altri reati, qualcun altro è tornato libero, ma per Pizzolungo non potranno più essere processati. In questi mesi a Caltanissetta si sta celebrando un altro processo, quello che vede alla sbarra il capo mafia palermitano Vincenzo Galatolo, imputato di essere stato il mandante. Lo accusa la figlia, Giovanna Galatolo.
E proprio guardando a Galatolo prendono forma quei contorni, quello scenario di trame e contatti tra mafia e poteri occulti, servizi segreti deviati. Galatolo è il boss di altre carneficine, la strage di via Pipitone Federico a Palermo dove fu ucciso il giudice Rocco Chinnici, l’omicidio di Pio La Torre, segretario Pci siciliano e del suo autista Rosario Di Salvo, l’uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, l’assassinio del capo della Squadra Mobile di Palermo Ninni Cassarà, l’attentato all’Addaura a Falcone. Tutti delitti di Cosa nostra, ma che non furono voluti solo da Cosa nostra. In un’altra aula del Tribunale a Caltanissetta mentre si processo Galatolo, lì si sta processando il latitante Matteo Messina Denaro, imputato per la strage di via D’Amelio, fu lui qualche giorno prima di quel 19 luglio 1992, a ordinare al capo mafia Vincenzo Virga di consegnare a due suoi emissari palermitani ciò che “era rimasto del tritolo di Pizzolungo”.
Margherita Asta è la figlia di Barbara Rizzo e la sorella di Salvatore e Giuseppe. Aveva 10 anni quando le dissero che a causa di un incidente i suoi familiari erano volati in cielo. Nel 1993 perderà anche il padre, Nunzio Asta. E’ cresciuta con Antonina, che divenne e resta sua mamma, le ha dato un fratello, Salvatore Giuseppe si chiama. Quel 2 Aprile doveva esserci anche lei su quell’auto con la mamma e i fratellini, per puro caso scelse di andare col passaggio di una vicina di casa. Oggi lei, che vive a Parma, si è sposata ed ha un figlio, Dilan, continua, con forza e una energia che presta con generosità anche ad altri, a raccontare Pizzolungo, la violenza della mafia, la storia di una terra dove la mafia te la trovi dentro casa d’improvviso, non solo perché provoca lutti, ma può anche accadere, ma non è il suo caso, perché c’è chi con la mafia da queste parti della Sicilia fa affari, stringe alleanze, e poi questi personaggi te li ritrovi in prima fila ieri a negare l’esistenza di Cosa nostra, oggi magari gli stessi dicono che Cosa nostra è stata smantellata. “Sono rimasta – dice Margherita – per raccontare la storia di Barbara, Salvatore e Giuseppe”. Una storia che a Trapani passata l’emozione del momento in pochi volevano ricordare. “Loro tre – riprende Margherita – legati da un incredibile destino, nati lo stesso giorno, il 22 Febbraio, morti tutti e tre il 2 Aprile”. Margherita lo dice sempre e ce lo ricorda sempre: “Per Pizzolungo attendiamo ancora verità e giustizia, e non è vero che la verità non si possa trovare, perché gira per le strade della mia città, ancora oggi. Attendiamo verità e giustizia per Barbara, Salvatore e Giuseppe e nello stesso tempo vogliamo sapere, lo pretendiamo, perché Carlo Palermo doveva essere ucciso. Con Carlo Palermo siamo sullo stesso fronte, ognuno di noi ha perso qualcosa di importante, io i miei familiari, lui il suo lavoro, la sua serenità”. In questa Italia che talvolta ci fa vergognare d’essere italiani, è accaduto che Carlo Palermo è come se fosse morto quel 2 aprile a Pizzolungo, costretto come è stato a lasciare la magistratura, lui che in quegli anni ’80 indagando su traffici di armi e droga a Trento prima e a Trapani dopo, si era imbattuto nei soldi riciclati nelle casse di un partito politico, il Psi, e in quel 1985 a stoppargli l’inchiesta a Trento era stato proprio il leader di quel partito, Bettino Craxi che sedeva da premier a Palazzo Chigi.
Ad accompagnare Margherita Asta nel nuovo processo a Caltanissetta è l’avv. Enza Rando, che la assiste nella parte civile. Ci ha “regalato” una sorta di diario di viaggio, più volte con Margherita ha raggiunto Caltanissetta per poi fare ritorno in Emilia Romagna dove tutte e due siciliane oramai abitano. Con un altro titolo lo pubblichiamo, qui ci piace riprenderne un pezzo, la discussione fatta nell’aula della Corte di Assise: “Dovevo parlare della strage, del corpo dei fratelli e della sua mamma, della atrocità di quanto era successo il 2 aprile del 1985, ma c’era sempre Margherita in quella aula di udienza. Pensavo alle ferite profonde di Margherita, al suo dolore nell’ascoltare le mie parole. Ho iniziato a parlare con voce “spezzata”, ma ho scelto di scavare, di raccontare il “dolore” di quella terribile strage, ho voluto parlare di Carlo Palermo, magistrato perbene con un fiuto investigativo enorme, ho voluto parlare delle mafie, delle collusioni e connivenze che le mafie hanno intrecciato con uomini infedeli delle istituzioni, delle loro condotte terroristiche e mafiose, del dolore che ha provocato alla famiglia di Margherita, al Giudice Carlo Palermo, ma anche al Paese, alle speranze di una terra nelle quale le mafie si sono radicate ed hanno danneggiato le comunità. Margherita era sempre accanto a me ed io cercavo di trovare sempre la parola giusta per rispettare il suo dolore, per me è stato difficile ed era visibile, e alla fine Margherita alla fine mi ha detto “ma eri emozionata”. La mia discussione è stata interrotta dall’imputato Galatolo Vincenzo, presente in aula in videoconferenza, il quale appena ho iniziato a parlare delle dichiarazioni della figlia Galatolo Giovanna, ha rinunciato a partecipare all’udienza. Anche questo è un segnale”. Già un segnale, tanti ce ne sono stati in questi 35 anni, molti hanno finta di non vedere!