Parole non pietre. È questo il titolo scelto per le tre giornate del Sinodo dei giornalisti, tenutosi a Roma dal 28 febbraio al 1° di marzo. Una tre giorni voluta da Articolo 21, Federazione nazionale della stampa italiana e UsigRai (Unione sindacale giornalisti Rai), con l’intento di mettere insieme, attorno alla Carta di Assisi, firmata il 13 maggio 2019 nella città umbra, le tre religioni monoteiste, la categoria dei giornalisti, le istituzioni e la società civile.
Tutte e tutti coloro che vogliono dare un segno di coesione sociale nel perseguimento di un obiettivo: contrastare i linguaggi d’odio. Perché, lo afferma Roberto Natale, coordinatore del Comitato scientifico di Articolo 21: «siamo il paese europeo più avvelenato nella percezione dell’altro, in cui si assiste costantemente alla pericolosa crescita di un’onda di odio che continua a montare. E nessuna società, compresa la nostra, si può reggere sulla lacerazione continua che nasce dal disagio sociale».
A ricordarlo per prima è Liliana Segre, in un videomessaggio di saluto. A sottolinearlo più volte è padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica, che modera e ospita la mattina del primo giorno di Parole non pietre.
La Carta di Assisi
Il cammino, pensato sotto il cielo romano, ha una traccia ben precisa: i 10 punti della Carta di Assisi. Un decalogo che si propone non come carta deontologica per addetti ai lavori, ma come manifesto collettivo di una cittadinanza estesa e plurima, senza confini, costruttrice di ponti, tenuta insieme da una parola chiave: fratellanza.
Un manifesto che nasce perché vi è un’emergenza culturale e civile che non può essere sottovalutata, ma affrontata in modo compatto nei vari territori religiosi, mediatici e sociali da cui deve scaturire una contaminazione (visti i tempi virali e di virus) vicendevole, che non tiene fuori nessuno. Perché il rischio, lo afferma Paolo Ruffini, prefetto del dicastero delle Comunicazioni della Santa sede, è che si finiscano per «costruire tribù ostili e non comunità. Perché nella pretesa di imporre agli altri la propria convinzione, si può sfociare nel fondamentalismo opposto. Dobbiamo sottrarci alla necessità di avere sempre un nemico, perseverare nel racconto, che è di per sé stesso incontro; nella cultura del dialogo che educa al coraggio necessario ad accettare l’alterità».
Si deve, lo sottolinea la moderatora della Chiesa valdese, Alessandra Trotta, «aver cura delle parole; riesercitarsi nella capacità di utilizzare le parole che aprono e guariscono. Non permettersi non solo l’indifferenza, ma l’ignavia». Un termine da tempo dimenticato, che suona come un richiamo ad una cittadinanza attiva e partecipata.
La resilienza del dolore
E la cittadinanza attiva abita il pomeriggio del venerdì e ha i volti delle famiglie Megalizzi, Siani, Cucchi, Toni e dei giornalisti sotto scorta che sono diventati testimonianza di una lotta per l’informazione che non riguarda solo chi l’informazione la fa, ma anche e soprattutto chi la riceve. Ricordando che l’articolo 21, è diritto ad avere informazione.
Ha le parole di chi ha trasformato il proprio dolore in qualcosa di valore non solo per sé, ma anche per gli altri. Per tutti i Giuli e le Giulie, non solo Regeni. Per tutte e tutti i Megalizzi che lasciano «un ideale da coltivare, un testimone da raccogliere». «Perché non è vero che un’ingiustizia riguarda solo chi la riceve, ed è storia di ordinaria ingiustizia – sottolinea Ilaria Cucchi –. Ma perché occorre difendere sempre i diritti degli altri anche quando apparentemente non sono i tuoi».
Storie capaci di mantenere in piedi la civiltà del nostro paese, se raccontate in modo corretto, guardando quell’orizzonte raffigurato da Mauro Biani nella sua vignetta dedicata alla tre giorni. Un orizzonte che sta oltre una penna che si attraversa e che fa da ponte.
Contrastare l’odio e ricordare
E da raccontare ci sarebbe tanto, stando alle testimonianze delle buone pratiche che si susseguono nella giornata di sabato: da chi lavora nelle commissioni per la lotta all’antisemitismo, alle associazioni e alle scuole, dalle testate dei media, alle singole storie dei giornalisti in prima linea e alle varie realtà territoriali di Articolo 21. Da chi chiede, a gran voce, che chi utilizza un linguaggio scorretto venga processato, sempre.
«Perché non può esserci par condicio tra fascismo e antifascismo, tra razzismo e antirazzismo, tra sessismo e diritti delle donne… per una malintesa terzietà di chi riporta le notizie». L’odio, in qualunque forma si esplichi, va contrastato con l’utilizzo di parole giuste e con la memoria.
Non a caso, la terza e ultima giornata di Parole non pietre, si chiude nel ghetto ebraico, con l’inaugurazione di una Panchina della memoria dedicata al giornalista Eduardo Ricchetti e ai tre tipografi Amedeo Fatucci, Leo Funaro e Pellegrino Vivanti, catturati nel rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943 e mai più tornati.
Panchine che nascono da un’idea di Luca Perino e Cristina Visitini dell’associazione Leali alle notizie, dalla necessità di trovare un posto fisico che ricordi una persona, dare visibilità a una storia tramite un oggetto in cui le storie si scambiano. Eccolo il dialogo, l’incontro. L’inizio di un viaggio in cui le parole no. Non sono pietre, ma ponti.
Articolo di Jessica Cugini tratto da Nigrizia