Nella giornata per la libertà d’informazione non si può dimenticare la piaga delle querele temerarie, considerata tra i fattori che spingono l’Italia in basso nelle classifiche internazionali in tema di libertà di stampa.
Uno strumento che l’emergenza covid-19 ha fatto esplodere. L’obiettivo, ovviamente, sono proprio giornalisti, testate e programmi televisivi d’inchiesta, che si sono permessi di andare a verificare sul terreno, ascoltare le testimonianze, via skype, telefono o a debita distanza come da regola, raccogliere ed esaminare le carte, che sono più difficili da smentire rispetto anche alla voce delle vittime di gestioni quantomeno critiche delle varie situazioni. E ancora più vergognosa è l’accusa di denigrare il sacrificio di quanti, sanitari, personale del 118, vigili del fuoco, appartenenti alle forze dell’ordine, che si sono spesi e continuano a spendersi eroicamente per salvare vite e contenere il contagio. La denuncia da parte dei cronisti di quelle gestioni “critiche” è al contrario proprio essenziale a salvare oltre alle vite dei malati, quelle degli stessi operatori costretti tante volte a lavorare in condizioni non sicure. Sono oltre 150 i medici morti finora, e almeno quaranta gli infermieri. Ma l’informazione approfondita non è mai gradita.
C’è poi una nuova curiosa forma di pressione rivolta specificamente agli spazi di approfondimento del Servizio Pubblico.
Anziché inoltrare richiesta di rettifica (ma bisogna averne il titolo) o rivolgersi alla magistratura quando si riscontri materia per farlo (e anche in questo caso bisogna averne titolo anche senza sostanza), sempre più spesso vengono inviate lettere infuocate ai massimi vertici aziendali, o addirittura sono depositate in Commissione di Vigilanza sulla Rai interrogazioni che mettono in discussione la veridicità di servizi, avanzano dubbi sulle reali motivazioni degli stessi, discutono dell’opportunità di intervistare il rappresentante di un’organizzazione sindacale anziché di un’altra, accusano di danneggiare l’onore e lo stesso sistema economico del Paese. Si è arrivati a chiedere conto persino della provenienza dei finanziamenti di programmi esclusivamente giornalistici, che quindi non possono per deontologia accettare alcun tipo di finanziamento esterno (programmi e giornalisti Rai sono tenuti a destinare a opere benefiche anche eventuali somme comprese nei premi vinti) e che sono prodotti del tutto all’interno della Rai. Forse facendo confusione con produzioni appaltate a società esterne.
Tutto questo, oltre che determinare una pressione psicologica al limite della richiesta di risarcimento per danno biologico, impone ad autori e redazioni intere un doppio lavoro: oltre a ricerche, verifiche, controverifiche (come dovuto per programmi d’inchiesta) fino all’ultimo momento prima della messa in onda, si affronta, ormai in tempo reale, la pressante richiesta dell’Azienda di rispondere con relazioni estremamente dettagliate alle interrogazioni come a diffide in qualsiasi forma avanzate. Si è resa così superata persino la tanto auspicata legge per frenare le querele temerarie: almeno l’iter giudiziario ha tempi certi; il nuovo iter, riservato peraltro all’informazione del Servizio Pubblico, ha i tempi imposti dalle convocazioni della Commissione di Vigilanza. Cioè ancora una volta dalla politica. Mentre da ogni parte s’invoca di liberare la Rai dai condizionamenti di quella stessa politica. La voglia di bavaglio cresce anche a casa nostra.
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