A Luis Sepúlveda devo tutto o quasi. Per chi ha la mia età, infatti, la storia della gabbianella Fortunata e del gatto Zorba è stata più di un’educazione sentimentale. Diciamo che lo scrittore cileno, che questo maledetto morbo si è portato via a soli settant’anni, è riuscito là dove hanno fallito giornali e partiti, dove non sono arrivate le istituzioni, dove sono mancati maestri e percorsi collettivi, per il semplice motivo che tutto questo, almeno alle nostre latitudini, non esiste pressoché più.
Luis Sepúlveda mi ha ispirato la prima poesia: avevo nove anni e per la prima volta cominciai a interrogarmi sul concetto di libertà in rapporto alla felicità, sul valore dello stare insieme, sull’importanza di unire le diversità e prendersi cura degli altri. Quel libro è quel film hanno rappresentato, non solo per me, molto più di un’ingenua favola per bambini. L’idea che a questo mondo voli solo chi osa farlo è stata un’educazione alla ribellione, alla riscossa, all’idea che ci si debba sempre opporre all’ordine costituito, anche nelle piccole cose, anche nei piccoli e apparentemente insignificanti gesti quotidiani.
Le riflessioni sul Cile di Allende, sul golpe dell’11 settembre 1973, sull’incendio della Moneda, sulla feroce dittatura di Pinochet, sui desaparecidos, sull’Operazione Condor e sull’impatto che quella tragedia ebbe anche sul nostro Paese, ispirando a Berlinguer la strategia del compromesso storico, tutto ciò è venuto dopo. Sepúlveda, per chi oggi ha trent’anni, è legato per sempre a quella storia d’amore e protezione in cui un gatto, anziché mangiare l’uovo affidatogli dalla gabbiana Kengah, ormai morente a causa del piumaggio impregnato dal petrolio fuoriuscito da una nave, lo cova come promesso, in cui una gabbianella trova affetto e solidarietà in chi, teoricamente, l’avrebbero dovuta sbranare e in cui quel volo, metaforico e reale, altro non è che il prendersi per mano di nemici che, in realtà, sono tali solo perché così vogliono le convenzioni e la ferocia della natura, umana e non solo.
Sepúlveda era un uomo buono, uno di quegli uomini che oggi sarebbero definiti “buonisti”, uno che non ha mai smesso di credere, con tutto se stesso, in un’idea di felicità, uno che ha predicato ed esplorato, per tutta la vita, un’altra idea di mondo, uno che ha difeso la natura all’avanzare disumano dell’inciviltà, uno che ha combattuto con tutte le sue forze contro la dittatura del capitalismo e del produttivismo, in nome di un’idea di leggerezza, di amore per il prossimo e di convivenza civile di carattere allendiano, uno che ha continuato senza sosta a cercare e a scoprire, uno che ha amato alla follia ogni singolo giorno, compresi i più drammatici.
Il Sepúlveda delle memorie, dei grandi romanzi storici, degli affreschi sul Cile che fu e su come è stato ridotto il suo paese, splendido e sventurato, quel Sepúlveda l’ho scoperto dopo, amandolo ovviamente con tutto me stesso. Ma per me la sua immagine rimarrà eternamente legata al volo di quella gabbianella dal campanile di Amburgo, icona di una generazione, la mia, cui era stato raccontato che avrebbe potuto spiccare, a sua volta, il volo verso il futuro e alla quale, invece, sono state spezzate le ali, tradendo la promessa che ci era stata fatta allora da un mondo che sembrava meraviglioso e finalmente senza barriere e che si è invece trasformato nella peggiore delle prigioni.
Luis Sepúlveda, poeta e combattente, è stato il nostro simbolo di lotta, il profeta di un altro modo di stare insieme, un esempio concreto di come potremmo essere e purtroppo non siamo e, forse, non saremo mai.
Ho pensato spesso, in questi anni, che anche noi siamo un po’ Fredy Taberna, il protagonista de “Le rose di Atacama”, in cui Sepúlveda paragona la sua generazione sconfitta a questo fiore che sboccia, per l’appunto, nel deserto di Atacama, si mostra meraviglioso e sfiorisce rapidamente, effimero come i sogni e le speranze di chi rifiuta di arrendersi. Poi, per fortuna, c’è chi come Luis e sua moglie Carmen Yanez persevera. E proprio a Carmen ha dedicato questi versi: “Una volta imparato tutto questo / tornai a disfare l’eco del tuo addio / e al suo posto palpitante scrissi / la Più Bella Storia d’Amore / ma, come dice l’adagio, / non si finisce mai / d’imparare e aver dubbi. / Così, ancora una volta / facilmente come nasce una rosa / o si morde la coda un a stella cadente, / seppi che la mia opera era scritta / perchè La Più Bella Storia d’Amore / è possibile solo / nella serena e inquietante / calligrafia dei tuoi occhi”.
Neanche noi, caro Luis, per dirla con Neruda, siamo più gli stessi di allora. Ma grazie a te, almeno qualcosa di quei giorni ci è rimasto dentro. Per questo, sia pur nello strazio dettato dalla morte, questo non può essere un addio.
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