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Luis Sepulveda, Mapuche. Indomito, ludico e poeta

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Sua madre era mapudungùn, una mapuche, di quegl’indios guerrieri della Patagonia cilena che hanno resistito 2 secoli all’invasione spagnola e ancora oggi combattono per rivendicare i loro diritti ancestrali sulle terre degli avi. Si chiamava Irma Calfucura, faceva l’infermiera e il padre di Luis, anch’egli Luis, militante comunista e cocinero autodidatta nella propria trattoria in un quartiere popolare di Santiago, l’aveva conosciuto durante una manifestazione politica. Può apparire perfino eccessiva, oggi, quest’epica sovraccarica di coscienza di classe. Ma era nello spirito dell’epoca ed ha cullato la nascita dello scrittore appena scomparso, a 70 anni, vittima del corona virus, dei maltrattamenti della vita e del fumo di sigari e sigarette che immensamente gli è piaciuto.

Il contesto storico insegna sempre i nostri sentimenti, è un po’ un marchio di fabbrica. Quando poi diventano i sentimenti di un narratore, giornalista, romanziere, poeta, sceneggiatore per il cinema, vengono amplificati dall’eco potente della parola. In quel Cile di fine anni Quaranta del secolo scorso, il presidente Gonzalez Videla, eletto da un ampio fronte a cui partecipano i comunisti e Pablo Neruda ne è il portavoce, rovescia ad un tratto le alleanze e sull’onda dell’allora incipiente guerra fredda li mette fuori legge, applicando un piano di austerità economica che suscita forti manifestazioni di protesta. Di cui la più dura è contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici urbani. E richiama quelle che in questi ultimi mesi stanno portando il Cile a una nuova Costituzione.

Queste radici hanno nutrito tutta l’esistenza più intima di Luis Sepulveda e ispirato la sua grande e varia creatività. Senza mai togliergli dalle labbra un sorriso sfumato d’ironia (o era inconfessabile malinconia?) che ha mantenuto al suo sguardo la trasparenza del bambino sempre rimasto sveglio in lui. Sepulveda, giovane comunista espulso come altre centinaia dal partito per deviazionismo dalla linea pro-sovietica, incarcerato dal golpe di Pinochet, clandestino, guerrigliero in Nicaragua, esule in Germania e in Italia, era una natura ludica. La coerenza ne alimentava la scrittura così come la gioia di vivere e viceversa. Con la stessa serenità, anche se forse non con altrettanta allegria, scriveva il suo amico e maestro (così Sepulveda gli si rivolgeva, solo in parte per gioco) l’argentino Osvaldo Soriano.

Entrambi, e non sono certo unici nelle letterature latinoamericane, hanno aggiornato il modello ottocentesco dello scrittore solitario e naturalista alla Jack London, senza perciò cadere nel realismo-magico divenuto stereotipo non “per” bensì “contro” lo straordinario, meritatissimo successo di Gabriel Garcia Marquez con “Cien Años de Soledad” e conservando intera la libertà di pensiero nei confronti dell’industria editoriale concentrata. Contribuendo validamente a frantumare il diaframma che manteneva incomunicata l’alta letteratura da quella bassa. Senza mai lasciarsi neppure tentare dall’usa e getta, ma al tempo stesso senza timori reverenziali per la commistione, per il meticcio e l’ibrido. Nessuna accademia nel loro DNA. “Quel che la passione per il calcio unisce, nessuno può separare”, scherzavano tra loro quei due iconoclasti.

Citerò a caso e solo per tratteggiare sommariamente l’unitarietà letteraria di Sepulveda dietro la varietà dei generi per i quali ha transitato (non solo non sono un critico letterario, sono per di più un lettore distratto). Nel “L’Ombra di ciò che siamo stati” coniuga l’avventuroso australe del connazionale Francisco Coloane con il poliziesco classico, pre-arti marziali, senza imitare nessuno dei due. Fino a una resa dei conti che oltre al plot del romanzo deve chiudere con le illusioni-delusioni politiche di uno dei personaggi, le cui vicende riecheggiano l’autobiografia dell’autore. Generosi riconoscimenti si aggiungono agli importanti premi già ricevuti (“Gabriela Mistral”, “Romulo Gallegos”). Il successo vero con annessi vantaggi economici arriva però con “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”, 1989.

Pubblicato dopo 5 anni che ne aveva completato la stesura, questo romanzo consolida il suo stile e gli conferisce la prima fama internazionale. Colori e misteri della selva tropicale (dove in effetti viaggia con una missione dell’UNESCO), fanno da scenario all’uomo che si cura con la lettura dai dolori dell’esistenza e al quale il sincretismo mistico al cui trasporto si affida restituisce la capacità di riappropriarsi del perduto sentimento dell’amore. “Storia di un gabbiano e del gatto che gli aveva insegnato a volare” estende la capacità di Sepulveda per raggiungere con il proprio linguaggio essenziale e diretto diverse categorie di lettori, in questo caso bambini e ragazzi. Egli aveva percepito con grande anticipo l’urgenza di ritrovare un rispettoso dialogo con la natura che iper-urbanesimo ed iper-consumismo ci hanno fatto smarrire.

Quella di Luis Sepulveda è una letteratura che vuol suggerire un modo diverso e più semplice di fare le cose, di sistemarle meglio, con un criterio adeguato alla nostra esistenza su questo pianeta: un pò come se offrisse alla realtà scomposta (antropocene, l’hanno ribattezzata i geologi) in cui viviamo una seconda opportunità. Da cui potremmo trarre tutti profitto, i primi e gli ultimi. Poiché i protagonisti che ci parlano dalle sue pagine non cercano e non desiderano il trionfo: in un’epoca in cui vincere coincide spesso con sopraffare e potrebbero quindi apparire come dei “perdenti”, essi vogliono invece essere essenzialmente incorruttibili testimoni del rifiuto a riconoscersi solo nel successo.


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