Forse la prenderò alla lontana, ma lo farò per sottolineare due aspetti di Sepúlveda. Il primo riguarda il suo carattere di uomo amichevole e solidale, intellettuale a tutto tondo. Il secondo di scrittore impegnato a denunciare la sofferenza del mondo attraverso un suo testo “minore”, ma, credo, significativo per capire questo grande cileno.
“Queste narrazioni sono epiche perché riguardano imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose: guerre, anabasi, viaggi iniziatici, lotte per la sopravvivenza, sempre all’interno di conflitti più vasti che decidono le sorti di classi, popoli, nazioni o addirittura dell’intera umanità, sugli sfondi di crisi storiche, catastrofi, formazioni sociali al collasso.” Roberto Bui, alias Wu Ming 1, teorizzava con queste parole, ere fa, la “New Italian Epic”, che avrebbe accomunato in quel periodo (anni 90’- 2000) diversi nostri scrittori. Il dibattito successivo non era stato esente da toni aspri, soprattutto contro Tiziano Scarpa, che ironicamente aveva sottolineato la falsa novità della “neoepica italiana”, sostenendo che non erano per nulla mancati negli anni precedenti autori che avevano scritto “romanzi storici” per aiutarci a capire l’Italia e il mondo. Faceva bene il vincitore dello Strega 2009 a rimbrottare la presunzione di Wu Ming. Bastava guardare oltre il giardino di casa e la questione assumeva un altro aspetto. In America Latina, ad esempio, le terribili condizioni di vita e una tradizione letteraria consolidata avevano da tempo aperto la strada a una nuova generazione di narratori, prima amici che colleghi – Taibo II, Giardinelli, Fonseca, Padura Fuentes, Gamboa, Chavarrìa – che nelle loro opere narrative utilizzavano la storia e l’immaginario come strumenti riflessivi e avvincenti. Che bella combriccola di narratori, che bravi gli amici di Sepúlveda (perché tali erano in molti). Lo scrittore cileno ci aiutò a conoscerli in quegli ormai lontani anni di fine millennio curando una collana per Guanda, La frontiera scomparsa. Fra i primi titoli ad essere pubblicati vi era un romanzo dal significativo titolo di Lettera dalla fine del mondo di Josè Manuel Fajardo. Era in pratica una lunga lettera che Domingo Perez, uno dei marinai “abbandonati” dall’Ammiraglio Colombo nella nuova terra da poco scoperta, destinava al fratello a testimonianza delle loro sventure. Partendo da un fatto storico – Colombo costretto a lasciare un avamposto di trentanove uomini sull’isola di Hispaniola – l’autore (ri)costruiva la vicenda del primo tragico incontro tra due mondi diversi. La drammatica “testimonianza” era soprattutto una metafora della condizione umana, fatta di solitudine, oppressione e – come scriveva Sepúlveda nella prefazione – “di scoramento e speranza, di azione e riflessione, al pari dei grandi libri d’avventura che ci hanno iniziati al piacere della lettura.” Insomma, il mai troppo compianto Luis ci indirizzava verso una strada forse meno raffinata rispetto ai soliti nomi latino-americani che circolavano da noi (Borges, Cortazar, Marquez, Amado, ecc) ma sicuramente feconda per la scoperta di nuovi scrittori o la riscoperta di più vecchi, ad esempio i connazionali Roberto Bolaño e Francisco Coloane, che con le loro narrazioni aiutavano a capire e capirci.
In un Sepúlveda “minore”, meno narrativo, ma non meno coinvolgente, possiamo rintracciare la genesi del suo lavoro. Riguarda Cronache dal cono sud (Guanda 2007). Dall’11 settembre 1973 per quasi diciotto anni Pinochet fu il padrone assoluto del Cile. Nel 1988 un referendum sancì la fine della dittatura ma non del suo potere. Lasciato ufficialmente il suo ruolo di capo di stato nel 1990, rimase però alla testa delle forze armate per altri otto anni. Intoccabile sempre e comunque. Michelle, la figlia di un altro militare, il generale Alberto Bachelet – rimasto fedele alla Costituzione e per questo ucciso – divenne anni dopo presidente del paese andino. Altra storia e personalità rispetto a quelle dei suoi predecessori, che non se la sentirono mai di perseguire il dittatore assassino José Augusto Ramón Pinochet Ugarte. Il generale golpista morì il 10 dicembre 2006: “senza pena né gloria , così come ha vissuto i suoi novantuno anni di miserabile vigliacco, a cui si riconoscevano solo tre talenti: tradire, mentire e rubare.” Tradì la Costituzione e il suo vero Presidente, che lo aveva voluto a capo dell’esercito, e il popolo cileno. Salvador Allende fu ucciso insieme a migliaia di cittadini inermi, che ne condivisero il destino dopo settimane di prigione, di tortura e, spesso, di stupri. Mentì dicendo che combatteva per salvare il Cile dal comunismo in nome della “libertà”. Invece fu una marionetta degli Stati Uniti e del suo segretario di stato Henry Kissinger, dominando sul Cile con migliaia di delatori assassini. Rubò con la sua cricca di familiari e militari, ladri e assassini. “(Pinochet) dava ordine di assassinare qualcuno, solitamente di sinistra, che avesse un grande appezzamento di terreno considerato edificabile. Il terreno passava per qualche giorno allo Stato cileno, ma poi veniva donato al CEMA, l’ente di sviluppo diretto da Lucia Hiriart in Pinochet. Più ladra di una gazza, questa ordinava agli architetti dell’esercito, pagati da tutti i cileni, di disegnare un progetto per cento e più alloggi, che venivano costruiti da battaglioni di soldati. (…) pagava tutto lo stato. Poi lei vendeva le case e il denaro scompariva nei suoi conti correnti di Miami, Gibilterra, Svizzera.” E la libera concorrenza? Non doveva dare il Gran Capo anche agli altri la possibilità di “arricchirsi” secondo quella libertà in economia (l’esperimento cileno dei Chicago boys, i seguaci di Milton Friedman) tanto decantata in quegli anni anche da fini intellettuali come Mario Vargas Llosa? Era severo Luis Sepúlveda, anzi rabbioso. Brutalmente irridente e amaro in queste preziose pagine, che esprimono il suo personale dolore. Le sue cronicas – scritte fra il 2005 e il 2006, alcune inedite, altre pubblicate su il manifesto e su Repubblica – sono utili ancora oggi per non dimenticare ciò che avvenne in America Latina e nel mondo a causa di quelle politiche neoliberiste, di cui oggi, con il virus, cogliamo meglio le contraddizioni. Non si risparmiava Sepúlveda. Attaccava frontalmente la pavidità dell’Occidente, che aveva chiuso gli occhi di fronte alla tragedia cilena, così come ha continuato a farlo sulle politiche ambientali e dei diritti civili e sociali. Criticava la sinistra moderata, divenuta troppo accondiscendente con la globalizzazione liberista. Non poteva che essere sarcastico anche con i leader di allora – i vari Blair, Schroeder, ma anche con gli italiani e gli spagnoli – che avevano snaturato le ragioni d’essere del socialismo. Non voleva che si dimenticasse che dietro quelle politiche sciagurate c’erano i nomi di uomini, donne, bambini, che avevano sofferto, che erano morti. Come Ricardo e Luis, due ragazzi scomparsi il 5 ottobre 1973 dopo essere stati fermati a coprifuoco inoltrato. “Trent’anni dopo si è saputo che quella pattuglia militare li portò in un magazzino di materiali edili, li sottopose ad ogni genere di tortura e alla fine li ammazzò a colpi di arma da fuoco.” La versione ufficiale delle autorità? Avevano tentato di assaltare una caserma laggiù nel profondo sud del Cile. Due ragazzini contro duemila soldati.