La contiguità del male tra fuga e autoreclusione

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Se in un vicino futuro senza memoria vi troverete a cercarne una sul filo di quel rasoio dove camminate disperati e se l’accesso alla memoria vanificasse la vostra ricerca nella certezza che nemmeno quella vi possa far conoscere la verità, allora e solo allora sarete liberi.

Perché la libertà non è uno scopo ma il solo limite dentro il quale ogni cosa trova una giustificazione. Così il Principe Prospero sceglie di rinserrarsi con i suoi amici in una abbazia fortificata chiudendo il mondo fuori, il mondo che è ora preda del male assoluto, della Morte Rossa, il cui avatar è il sangue e «il suo marchio, è il rosso e l’orrore del sangue». Dentro l’abbazia il contagio può essere sfidato se non si esce: il luogo è approvvigionato e ogni sera si partecipa a una festa, si compiono orge nelle sette sale, disposte bizzarramente ché ogni pochi metri un angolo retto ne preclude lo sguardo all’interno, fingendo quindi una falsa illimitatezza. Fuori intanto il male, muto e implacabile, imperversa.  Le sale sono tappezzate di colori sgargianti, i vetri riverberano la luce e la tingono. L’ultima stanza, la settima, è avvolta in un greve drappeggio nero e le finestre filtrano un rosso denso di sangue.

Qualcuno, leggendo il mio prologo potrebbe pensare che si stia parlando del nostro oggi: ma non è così. La Maschera della Morte Rossa, il terrificante racconto di Edgar Allan Poe, pubblicato nel 1841 sulle pagine del «Graham Magazine» di Philadelphia, dove lo scrittore americano faceva il redattore per la cifra, allora altissima, di 800 dollari l’anno, è una epica e iconica rappresentazione dell’impossibilità per l’uomo di sfuggire al proprio destino.

L’infermità che Poe aveva descritto tremenda, capace di mandare in disfacimento la carne attraverso una contaminazione misteriosa del sangue, in qualche modo profetizzava il terrore portato con sé da un male ancora più subdolo e strisciante che solo qualche anno fa ha ridato nuova linfa al moralismo religioso.

La Morte Rossa ha un epos che ci riporta alla battaglia tra l’uomo che osa oltrepassare il confine posto dagli dei, peccando di superbia e incorrendo nel fthònostheòn: l’invidia che spezza ogni legame e s’abbatte su chi è felice.

Riflettendo sul concetto, così indeterminato, di ‘dentro e fuori’ e quindi obbligatoriamente di libertà e contenzione ma anche di memoria e dimenticanza, il recente film di Jorge Acebo Canedo, Occidente (Spagna 2019), ci dà la possibilità di prendere in considerazione un punto di vista diverso da quello di Poe, eppure in qualche modo parallelo. In un futuro prossimo, una società industrializzata, che si concentra all’interno di una enorme città-fabbrica, con sistemi produttivi che però appaiono primitivi, alienanti, società frutto di un recente conflitto, ha abolito il diritto di vivere a contatto con la natura, ha abolito il concetto stesso di bellezza, rappresentata dall’arte, definita come ‘il nemico dell’Occidente’. E questo Occidente è una entità opprimente, che basa il proprio potere sull’umiliazione, perché, abolita per legge la memoria, non resta che l’occhio spietato, banalizzante e acritico di una telecamera, attraverso il quale filtra tutto come fosse sullo stesso livello. La tortura a cui chiunque viene sottoposto quando trasgredisce le regole è fisica, a volte banale come pulire, dopo essersi spogliati, gli escrementi in un bagno, oppure dolorosa, ma passa comunque e sempre attraverso lo sguardo inquisitore di spettatori in attesa di perseguitare.

Perché quando non si ha più la memoria, si perde anche quella fisica, morale, filosofica, del male. E resta solo la possibilità di inquisire, di giudicare e di colpevolizzare. Chi decide malgrado tutto di scegliere la libertà, di contraddire il concetto di tutela biologica, il cui superamento differenzia, forse, l’uomo dagli altri esseri viventi, deve esistere ai margini di questo meccanismo politico che ha abbandonato l’idea di democrazia, di costituzionalismo democratico, diremmo oggi.

Se da un lato è la vista che mortifica, impassibile, di uno spettacolo a cui si assiste per inedia, dall’altro è invece la ripresa lucida e volontaria del protagonista, il maturo regista, chiamato semplicemente H, tornato dall’esilio, tesa a conservare la memoria per il tramite di una indagine profonda, rappresentata dalla assillante presenza della sua antiquata macchina da presa. Con una giovane donna fuggirà in un luogo apparentemente selvaggio, sebbene gremito di vestigia di un recente e tragico passato, che infine però si rivelerà contiguo alla città-fabbrica e al mostro tentacolare. Ecco che se Prospero preferisce la reclusione per fuggire al disordine e alla morte e in una fittizia allegria, cede la libertà in nome appunto della salvezza del corpo e anzi si prende gioco del dolore, beffandolo con lo svago sofisticato del piacere, H invece, si getta nel disordine pagando un pegno di sangue che è il soldo per cercare invano di sopravvivere senza disgiungere la volontà dalla contingenza. Il sacrificio pagano del grande cinghiale ucciso e sventrato e la visita alla dimenticata grotta di Altamira dove si compirà il rito del ricongiungimento dell’uomo con il divino e in tutt’altro luogo, nelle sale dell’abbazia dove apparirà, durante l’ultima serata in maschera, una mimesi impressionante e irridente che saranno in molti a riconoscere come la Morte Rossa, condurranno chi ha scelto un fuori o un dentro troppo contiguo al suo opposto, troppo vago, troppo inconcludente, alla medesima sorte. Così nessun riparo può impedire al dolore di entrare, o di incontrarci fuori: la Morte Rossa, spegnendo la vita che anima «l’orologio d’ebano»− nell’ultimo cupo salone, il più nascosto, il più sicuro ora inondato di una «rugiada di sangue» − estingue le fiamme dei tripodi e l’orgia insensata dei gaudenti come il misero vagare dei fuggitivi, imponendo l’illimitato dominio della tenebra, della decadenza, della morte.


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