L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo – e che sta vivendo tutto il mondo – impone una riflessione anche in ordine a come l’informazione ha raccontato e sta raccontando questo (tragico) momento. Un racconto che a mio avviso si è mostrato – con le dovute eccezioni – alquanto deficitario, per una serie di motivi che cercherò di spiegare. Anzitutto, si è utilizzata una terminologia di guerra: vero, si potrebbe dire, che tale terminologia è stata anzitutto utilizzata da alcuni governanti, ma questo nulla toglie ad una certa “pigrizia” che ha fatto sì che si prendesse a prestito la terminologia bellica.
La Lombardia, certo, ed alcune province – Bergamo e Brescia su tutte – hanno vissuto con ogni probabilità scene davvero di guerra, ma il racconto complessivo degli eventi ha enfatizzato e – quasi – spettacolarizzato gli eventi stessi: si notava, ad esempio, quasi la delusione – di certi giornalisti – nel momento in cui intervistando un medico, questi dispensava parole di coraggio e di ottimismo, perché ciò faceva venire meno quel pathos che doveva essere il filo conduttore dell’intervista. Si è ignorato, per esempio, che questa terminologia bellica stonava con il fatto che per la maggioranza di noi, si trattava di stare sul divano di casa e non al fronte. Dunque, si è scelta la strada più facile: il racconto dell’epidemia come fosse una guerra. In pochi, in verità, proprio fra i giornalisti reporter di guerra, si sono “ribellati” a questo racconto, proprio perché la guerra è altra cosa.
Ma andiamo oltre. Si è dato spazio – spesso – a titoli e ad articoli ansiogeni, senza alcun supporto scientifico. Un esempio? Nel corso dell’ultima proroga della “quarantena” (in ossequio ai termini già disposti al 31 gennaio 2020) molti giornali pubblicavano che il lockdown sarebbe durato fino al 31 luglio, circostanza ovviamente falsa – il termine del 31 luglio era il termine previsto fin dal 31 gennaio per i sei mesi stabiliti per legge come stato di emergenza – che costringeva lo stesso Premier a spiegarlo in conferenza stampa. Per sedare le ansie dei cittadini che temevano la reclusione per altri 4 mesi. Altri titoli ed articoli – quasi quotidianamente – ci spiegano che “nulla sarà mai più come prima”, secondo un leit motiv smentito peraltro da non pochi virologi che ci spiegano come questo stato di cose durerà fino ad una cura ovvero ad un vaccino, ma altresì spiegando che una lenta normalità ci sarà, comunque, alla fine dell’emergenza. Ed infatti, leggendo poi gli stessi articoli si capiva che si trattava di mere ipotesi, spesso considerazioni vaghe dello stesso giornalista, senza alcun supporto scientifico. Articoli e titoli del genere sono ancora oggi all’ordine del giorno: sono articoli fondati quasi sul nulla, ma spesso improntati ad un click bait che non fa onore alla stampa. Andiamo ancora oltre. Si intervistano soltanto i virologi o i medici – che sempre facendo delle ipotesi – si mostrano, generalmente, più catastrofisti. E poco spazio viene lasciato – se non in questi ultimi giorni – a quelli che invece predicano calma e si mostrano più ottimisti. Si potrebbe dire che in fondo anche gli ottimisti fondano le proprie ragioni su sensazioni, ed è vero, ma allora possiamo sostenere che la scelta della stampa – fra sensazioni – è andata – inequivocabilmente – solo su quelle più negative.
Veniamo anche all’invito allo stare a casa: la stampa lo ha ripetuto fino alla sfinimento e lo ripete anche adesso, e ciò è legittimo, naturalmente, ma si sarebbe dovuto anche indagare su cosa “stare a casa” significhi per moltissimi italiani che stanno in abitazioni spesso piccolissime e prive di ogni confort (balconi, computer, tablet, libri, connessione wifi…), in situazioni di disagio psicologico non indifferente. Questa circostanza è stata evidenziata soltanto da pochissimi. Si sarebbe dovuto indagare – anche – su cosa può comportare un “lockdown” infinito (come pure alcuni virologi predicano) per intere categorie o tantissimi italiani. Invero, negli ultimi giorni questi aspetti occupano più spazio nel dibattito, ma solo perché – temo – siano stati affrontati dalla Politica, e non certo per una stampa che incalzava politici e studiosi sulle soluzioni alternative per il “dopo” emergenza. Stesso discorso per gli accadimenti lombardi: sono ancora davanti ai nostri occhi le immagini di Bergamo, e sono immagini che difficilmente potremo cancellare. Ma soltanto in questi giorni – ed a fronte delle denunce di alcuni medici lombardi – si è iniziato a ragionare su cosa non abbia funzionato in Lombardia, facendo – assai erroneamente – credere, per un intero mese, che il virus avesse una letalità estrema, circostanza che nessun virologo e neanche l’OMS hanno sostenuto. La virologa Ilaria Capua, ad esempio, da tempo, sostiene che proprio in Lombardia ci possa essere qualcosa che non quadra nei sistemi di aerazione degli ospedali ovvero altri studiosi ritengono ancora che qualcosa che non va per una eccessivo ricorso alla ospedalizzazione, ma soltanto in questi giorni questi dubbi sono più indagati, anche a fronte di alcuni autorevoli studi che hanno dimostrato la possibilità del cosiddetto effetto “aerosol” nei reparti.
Come attenuante, certo, possiamo addurre la straordinarietà degli eventi, ma ciò non toglie, a mio avviso, che il racconto complessivo degli eventi sia stato orientato – quasi esclusivamente – ad accompagnare l’emotività del Paese: legittime, per inteso, le interviste ai medici o agli infermieri che “resistono”, e a cui deve andare il nostro ringraziamento, ma il racconto è sembrato fermarsi lì. Si poteva pretendere una informazione più “fredda” o neutra? Probabilmente si. A meno di non considerare che l’informazione dovesse agire – e debba agire- come mero strumento della politica o dei medici per creare quel clima – comprensibilissimo – necessario al rispetto delle regole di distanziamento sociale, ma reputo che questa circostanza debba essere esclusa perché del tutto aliena alla funzione della stampa. Chi scrive – per mestiere – assiste decine di giornalisti nella aule di tribunale, perché considera la libertà di stampa il presidio più evidente di una Democrazia liberale. Ma tale ruolo postula una enorme responsabilità. Che deve sempre essere esercitata.