Per don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, c’è bisogno di cambiare il modo di rispondere ai bisogni di chi è emarginato. “Il diritto di cittadinanza va riconosciuto a tutti: l’accesso alla casa come ai servizi deve diventare un investimento per le città. Basta risposte assistenziali”
MILANO – “Per noi la fase 1 non è ancora finita. Però vogliamo ragionare sul futuro. E di una cosa sono certo: dormitori, mense e ogni altro intervento va cambiato”. Don Virginio Colmegna, presidente della Casa della Carità, sta affrontando in questi giorni il contagio di 25 ospiti nelle sue strutture. “Grazie alla dedizione e alla professionalità degli operatori queste persone sono isolate dagli altri ospiti ma seguite”. Per ora casi gravi non ce ne sono. “Ma questa esperienza e la povertà crescente che registriamo a Milano ci sprona a immaginare un nuovo modo di rispondere all’emarginazione. Certo che le strutture di accoglienza ci vogliono ancora, ma non possiamo pensare che queste siano le risposte a un bisogno di cittadinanza che viene da chi ha perso il lavoro, o la casa, o dal migrante irregolare”.
“Devono essere innanzitutto le istituzioni a impegnarsi per una nuova politica dell’abitare – aggiunge don Virginio Colmegna -. Dobbiamo fare un nuovo patto sociale, in cui è riconosciuto il diritto di cittadinanza a tutti. L’accesso alla casa, così come ai servizi sanitari o sociali, deve diventare un investimento per le nostre città. Non ci servono risposte d’emergenza o assistenziali. Abbiamo visto chiaramente che non bastano”.
“Pensiamo anche al dramma degli anziani nelle case di riposo – aggiunge il presidente della Casa della Carità -. Anche questo modello va ripensato. Il virus ha decimato la generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale. E il 25 aprile è servito quindi a ricordare i morti di questi giorni, perché sono in buona parte di quella generazione che ha vissuto quegli anni e contribuito a ricostruire il Paese nel dopoguerra”. (dp)