BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Buon compleanno, Vita Nuova!

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Non capita tutti i giorni di compiere 100 anni. Non è da tutti. Bisogna essere molto resistenti. Come gli elettrodomestici di una volta: quelli, diceva mia mamma, non si rompevano, duravano; forse perché erano fatti e trattati con cura. Vale per le persone, che per spegnere 100 candeline devono esser sopravvissute al fascismo, a una guerra mondiale, alla guerra fredda, al terrorismo, a Mani Pulite, alla nascita di Internet… qui da noi anche alle complesse vicende del confine orientale; vale ancor di più per un giornale, che più di altri dalla nascita della Rete avrebbe potuto uscire con le ossa, anzi con le pagine rotte. Ma Vita Nuova, il settimanale cattolico di Trieste ce l’ha fatta, come ce l’hanno fatta molti altri settimanali diocesani sorti in tutta Italia dalla fine dell’Ottocento in poi. Sarà che erano e sono beni delle comunità e non di qualche lobby che se ne disfa dopo averli usati per raggiungere i propri obiettivi. Comunità che li realizzavano, li diffondevano e li sostenevano; comunità che consideravano e considerano il servizio dell’informazione e della comunicazione un valore, uno strumento indispensabile per rafforzare il senso di coesione e per dare voce al territorio. La testimonianza di un’editoria di prossimità, come li ha definiti qualche mese fa il sottosegretario competente Andrea Martella.

Di Vita Nuova, il settimanale triestino nato il 10 aprile 1920 che oggi compie 100 anni, sono stata direttrice responsabile per quasi un decennio, dal 1° dicembre 2000 al 4 giugno 2010, un’esperienza che ha segnato la mia vita e quella di tante persone che parteciparono a quell’avventura e con le quali condividiamo un profondo sentimento di riconoscenza.

La nomina arrivò in un momento inaspettato e non proprio ottimale: avevo 31 anni e due figlie piccole e assumere la direzione di un giornale non era la scelta più furba per semplificarsi giornate già complicate di loro. Senza contare che avevo tutte le controindicazioni del caso: ero giovane, donna e laica. Ma per l’editore pro tempore di allora, mons. Eugenio Ravignani, non erano controindicazioni rilevanti e fu così che divenni la prima donna laica ad assumere la guida di un periodico religioso in Italia. Una scelta che non a caso arrivava da una terra di frontiera (vent’anni dopo le direttrici delle testate aderenti alla FISC, la Federazione Italiana dei Settimanali Cattolici, sono un po’ cresciute, ma rimangono un’assoluta minoranza: 20 su 183 testate).

In questa terra pratica di confini, molti dei quali erano e in parte sono tuttora nella testa delle persone, la nostra principale missione fu quella di uscire dal tempio, dai confini comodi e rassicuranti delle parrocchie e degli oratori, di aprire finestre sulla realtà e sulla Città (una tra tutte quella sul mondo del nostro carcere), di allestire ospedali da campo direbbe oggi papa Francesco. Perché anche un buon giornalismo può curare le ferite e scaldare il cuore della gente, se è un giornalismo che non si limita a pubblicare i comunicati istituzionali e a fare da cassa di risonanza ai potenti, ma è capace di diffondere ciò che qualcuno non vorrebbe si sapesse, di additare ciò che è nascosto, per dirla con Verbitsky, senza il timore di essere all’occorrenza molesto. Non per il gusto di esserlo, ma per il dovere d’informare, nella consapevolezza che a un’opinione pubblica bene informata ci si può sempre appellare contro le ingiustizie, la corruzione, gli errori del governo, come sosteneva Pulitzer. Il giornalismo dunque come esercizio della democrazia e pratica della giustizia: uno spazio da cui guardare gli eventi della storia e provare a comprenderli, ma facendolo da una prospettiva particolare, quella che Bonhoeffer, di cui ieri abbiamo ricordato il 75° del martirio, definiva dal basso, dalla prospettiva degli esclusi, dei sofferenti, degli ultimi. Per dare voce a quelli che non ce l’hanno, in primo luogo i più fragili.

Un compito ambizioso per una redazione che all’inizio era fatta per la quasi totalità di volontari, ma la passione ha gambe e braccia: uscimmo dal timoroso esitare ed entrammo nella tempesta dell’accadere, per dirla sempre con Bonhoeffer, allargando il dialogo a chi la pensava diversamente, professando fiducia nell’incontro e nel confronto, praticando un ascolto empatico verso il mondo, di cui abbiamo cercato di raccontare le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce senza giudizi e dita puntate.

Lo abbiamo fatto insieme attraverso un vero gioco di squadra, capace di valorizzare le molteplici competenze e di rispettare le diverse sensibilità, costruendo relazioni autentiche sopravvissute alla fine della collaborazione e dando corpo a quel “Noi” che solo può vincere. Ogni settimana abbiamo battuto il territorio arrivando alle estreme periferie, quando le periferie non andavano ancora di moda; ogni giovedì sera ci ritrovavamo per la riunione di redazione ed era un momento che tutti ricordiamo con grande nostalgia.

Per tanti, soprattutto i più giovani, è stata una palestra di scrittura, dove hanno imparato a comunicare, a fare sintesi, a rispettare gli spazi assegnati e i tempi di consegna, ad accettare e apprezzare le correzioni, a rapportarsi con la redazione e con i lettori: alcuni ne hanno fatto una professione, altri hanno intrapreso altre strade mantenendo interesse per la pubblicistica e la narrativa e dando alle stampe numerosi libri.

Per tutti è stata una palestra di vita, che ha fatto crescere ciascuno e ciascuna di noi e il giornale nel suo insieme: da prodotto sostanzialmente artigianale si è professionalizzato, creando tre nuovi posti di lavoro, ha aumentato il numero delle pagine, ha rinnovato la veste grafica, è sbarcato su Internet, senza tuttavia mai tradire (almeno fino a quando ne abbiamo avuto la responsabilità) la sua vocazione originaria, quella di essere un giornale partigiano, cioè che sta dalla parte degli ultimi e di chi difende la libertà di stampa.

Buon compleanno, Vita Nuova!


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