Aldo Fabrizi, scomparso ahinoi trent’anni fa all’età di ottantaquattro anni, incarnava la romanità in tutto e per tutto. Se Sordi è stato l’italiano medio, il romano sbruffone e un po’ coatto, quasi una maschera, anche se assolutamente geniale, Fabrizi è stato la romanità migliore: colta, profonda, inarrivabile nella potenza emotiva di alcune interpretazioni. Basti pensare al don Pietro di “Roma città aperta”, con il sangue dell’occupazione nazista ancora fresco sul selciato e la figura di Teresa Gullace, martire della resistenza popolare al nazi-fascismo, che si stagliava solenne sullo sfondo di una capitale in macerie.
Aldo Fabrizi non ha mai recitato: è sempre stato i suoi personaggi, sia al cinema che a teatro. Fenomenale nella tragedia e nella commedia, perfetto nel ruolo di Mastro Titta nel “Rugantino” di Garinei e Giovannini, verace come solo i veri romani sanno essere, un nome su tutti Anna Magnani, inimitabile in ogni parola, in ogni sguardo, in ogni gesto.
Fabrizi apparteneva alla Roma popolare, a una società ormai pressoché scomparsa, a un mondo che non esiste più ma, al netto delle sue innumerevoli storture, se confrontato con quello di oggi, continua a sembrarci bellissimo, se non altro perché l’essere umano aveva ancora un senso, una collocazione sociale, il proprio posto nel mosaico globale in cui tutti siamo immersi e dal quale nessuno di noi può sottrarsi. Fabrizi, senza volerla buttare forzatamente in politica, costituiva la negazione dell’assunto thatcheriano secondo cui la società non esiste, essendo l’incarnazione dell’esatto opposto. Nulla sarebbe stato possibile, infatti, nella sua vita senza Roma, senza i suoi riti, il suo cibo, le sue caratteristiche e, naturalmente, la sua parlata tipica, inconfondibile, ironica al solo sentirla. Un grande attore, certo, un istrione che ha saputo portare sullo schermo un modo di essere e un protagonista che ha spaziato, per tutta la carriera, dal comico al drammatico, illuminando la scena con la sua infinita grandezza e il suo stile inconfondibile.
Esordì nel ’42 in “Avanti c’è posto…” di Mario Bonnard e, da quel momento in poi, la sua malinconica leggerezza non ci ha più detto addio né lasciati soli. Già trent’anni, sor Aldo, già trent’anni!
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